C'era una volta una Principessa: Enza Cacioppo






Enza Cacioppo nacque a Palazzo Adriano il 3 giugno del 1978, nei pressi del monte delle Rose dove visse Santa Rosalia.

Fu battezzata a Chiusa Sclafani nella chiesa di Santa Caterina e ricevette la prima comunione nella chiesa Madre di Chiusa Sclafani, dove si venera un quadro della Madonna delle Lacrime ed il Santo Volto di Gesù portato da Roma da frate Innocenzo da Chiusa.

Abitò in Via Riccio a Chiusa Sclafani con i genitori Pino e Rosalia Schifani, il fratello Salvatore ed i nonni materni.
Fu sempre legata alla parrocchia di Santa Caterina, dove ricevette il sacramento della Cresima, e dove collaborò con Don Salvatore Lo Bue, come catechista, che la definì ai suoi funerali “la rosa più bella del mio giardino” intendendo come giardino la parrocchia.
Fu sempre legata alla Madonna del Balzo dal 1° al 15 di agosto di ogni anno si recava a piedi nudi al Santuario attraversando la Via Sacra recitando il Santo Rosario.
Aderì al Movimento dei Cursillos di Cristianità partecipando agli incontri locali; ne serbarono un bel ricordo Mons. Pietro Marchisotta che come Vicario Foraneo cioè rappresentante dell'Arcivescovo nella nostra zona partecipò alla manifestazione in suo onore e Don Calogero Giovinco.
Fu una persona buona e umile ma anche dal temperamento forte quando si trattò di difendere i deboli.
Frequentò le scuole superiori a Bisacquino riuscendo con il suo carattere ad essere stimata da tutti, partecipando con entusiasmo alle varie iniziative; una foto in suo ricordo è stata posta nella biblioteca della scuola; l'allora Arciprete di Bisacquino Decano Don Lino Di Vincenti, che ha partecipato alla sua manifestazione, in quel periodo responsabile della scuola ne ha voluto fare un modello per le future generazioni, dedicandole ogni anno un giorno della quindicina in onore alla Madonna del Balzo.
Morì, a soli 21 anni, il 25 giugno del 1999, giorno della Madonna di Madjogorie, a Corleone, nel paese di San Bernardo, a seguito di un incidente stradale avvenuto nel territorio di Bisacquino; ai suoi funerali parteciparono più di tremila persone.
L’allora Arciprete di Chiusa Sclafani Mons. Rosario Bacile ora Decano di Bisacquino, suo insegnante alla scuola media G. Reina, che ha partecipato alla sua manifestazione, l’ha proposta come modello di santità per i giovani del luogo.
Un ricordo particolare ne conservano le suore di Chiusa Sclafani dove Enza partecipava agli incontri da loro organizzati ed alle loro gite, tanto che hanno voluto con determinazione che la manifestazione in suo onore si tenesse nei loro locali.
Anche Don Mario Giaccone già Arciprete di Giuliana ma pure vice parroco della Chiesa Madre di Chiusa Sclafani ne parla come una bella figura. 
Con particolare affetto la ricorda anche il Decano di Corleone Don Vincenzo Pizzitola e la confraternita San Bernardo da Corleone che ha sede nella casa natia del santo di Corleone. 
Il Parroco della Chiesa di Sant’Antonio a Bisacquino Don Vincenzo Spada un giorno di Natale ha voluto che le fosse dedicata la messa principale con 21 rose blu sull'altare maggiore. 
Un libro che parla della sua vita è “Le Vallate del Triona” pubblicato nel 2002, scritto dalle testimonianze delle persone che l’hanno conosciuta. 
Nella monografia su Bisacquino del sacerdote Don Ignazio Pizzitola è ricordata come una persona buona. 
Nel 2004 un'immagine in ceramica della Madonna del Balzo fu collocata nel luogo dove Enza riposa, opera degli artisti locali Gannuscio. 
Ancora oggi, il giorno di Natale del 2014 l'Arciprete di Campofiorito padre Antonino Di Chiara, che ha partecipato alla sua manifestazione, le ha dedicato la messa principale del paese. 
Enza oltre alla sua famiglia fu molto legata agli amici della sua Compagnia, quando la compagnia finì, nel suo diario scrisse: "Io un libro su di loro l'avrei scritto". 

C’era una volta una Principessa, che un giorno uscì dal suo castello e scese lungo il fiume, qui lo attraversò e scoprì che al di là c’erano dei pastori e dei contadini che recavano grano, agnelli ed altri prodotti della pastorizia verso una Luce, seguendo una stella cometa. Durante il cammino incontrò tant’altra gente, alcuni venivano da lontano ed erano vestiti con abiti antichi, li chiamavano i Magi. Un gruppo di zampognari eseguivano dei canti allegri quando alcuni viaggiatori Bernardo da Corleone, Luigi Scrosopi, Agostino Roscelli, Teresa Eustochio Verzieri, Rafqa Pietra Chobod Ar Rayès, la incontrarono. Essi venivano a piedi da diversi sentieri di montagna e la presero per mano, seguirono insieme la stella cometa. Più tardi, videro in lontananza la grotta di Gesù. Cadeva la pioggia e stava per avvicinarsi la neve. 

AL DI LA DEL FIUME 

Non rivedremo più, i laghi, i fiumi, ed i mari di questa terra. Resteranno qui la dolcezza dei monti, la bellezza delle rose ed il sorriso di chi ci ha voluto bene. 
Saranno lontani i nostri dolori e le nostre illusioni, saliranno tra le nuvole, poi non parleranno più. 
Non parleranno più, nel modo di un oceano, dopo una tempesta. 
Nel tempo in cui, in altro posto c’è ne andremo, noi saluteremo quel che resta del passato, legati ai corsi d'acqua di quel fiume sfavillante di mille colori che nel confine tra cielo e terra noi rivedremo un'altra volta ancora. 
Guarderemo, ancora, quei nostri giorni vissuti tra il far del giorno e l’imbrunire, poi, se Dio lo vorrà, andremo oltre. 
Quando cade la pioggia e sta per avvicinarsi la neve, una Luce, che brilla da un balzo del monte Triona ci indicherà la via, in quel luogo attraversando un arcobaleno, ci rivedremo tutti al di là del fiume. 
Riandrà oltre la dolcezza, nell’oscurità, di quella luna e di quelle stelle. 
Riandrà oltre lo splendore, nella luminosità, di quel sole. 
Riandrà oltre la dolcezza dei monti, la bellezza delle rose ed il sorriso di chi ci ha voluto bene. 
Nacque quel fiume sul Monte delle Rose, scese nelle valli della Madonna del Balzo e giunse a riva, poi tacque, così incominciò il mare. 



Sacra immagine che si trova nel luogo in cui riposa Enza





Un sacerdote che amò tanto Bisacquino



Ho avuto la possibilità di conoscere mio zio il Decano Don Calogero Di Vincenti solo per dieci anni, lo ricordo come una persona sempre sorridente e con un carattere cordiale tanto da risultare amico di tutti. Da quanto ho appreso durante il corso della mia vita, fin da bambino maturò la sua vocazione al sacerdozio, tanto che simulava, vedendo le processioni dei grandi, delle processioni con i suoi piccoli amici nelle vie del centro storico di Bisacquino, e precisamente nel quartiere Acquanova. Entrato in seminario, mio nonno Giuseppe Di Vincenti, che allora svolgeva l'attività di carrettiere, ogni quindici giorni andava a Monreale, affrontando allora sentieri difficilmente percorribili irti e scoscesi. Mio zio già sacerdote, molto legato al Seminario, d'estate quando veniva a Bisacquino, con il padre sul carretto girava con padre Governanti per reperire del cibo da portare ai seminaristi. Nel 1949 fu fatto parroco di una nuova parrocchia creatasi a Montelepre, tra le preoccupazioni di mia nonna Giuseppina Giovinco, in quanto a causa del fenomeno del banditismo capitanato da Giuliano nel paese era stato imposto il coprifuoco. Mio zio con l'entuasiasmo che lo contraddistingueva come mi è stato riferito da Mons. Ferina suo successore nella parrocchia, affrontò quell'incarico risultando super partes ed ottenendo la stima di tutti. Durante questo periodo, ancora in giovane età morì mia nonna. Nel 1952 fu nominato Decano Arciprete di Bisacquino, da allora per venticinque anni dedicò la sua vita al suo paese. Erano tempi difficili e di miseria, per questo mio zio fondò un patronato delle Acli per fare in modo che sopratutto gli anziani meno abbienti potessero avere una pensione ed essere assistiti in famiglia, fu così che il Boccone del povero nel nostro paese non ebbe più modo di esistere. Come i preti sociali degli anni '50 si occupò di politica, pur essendo con la Democrazia Cristiana riusciva a coinvolgere tutti i partiti nell’amministrazione del paese. Fin da piccolo, mio zio fu molto legato a Mons. Giovanni Bacile suo predecessore nella carica di Arciprete ed anche Mons. Bacile stravedeva per lui, tanto che ancora seminarista, lo faceva predicare in matrice; mio zio nel suo cuore aveva un sogno quello di portare il Decano Bacile in matrice, così il corpo del Decano Bacile nel 1956 tra un tripudio di folla fu portato nella chiesa Madre. Quegli anni furono inoltre caratterizzati dalla forte emigrazione verso la Germania, dove mio zio si recò per vedere le condizioni nelle quali vivevano i nostri compaesani. Mio zio come d'altronde tutti i bisacquinesi fu sempre molto legato alla Madonna del Balzo, realizzando come mi raccontava frate Antonio Ferlisi molti cantieri per migliorare i locali del Santuario, ormai obsoleti dopo circa trecentocinquanta anni dalla costruzione. Fu un grande oratore come mi è stato riferito dalla mia insegnante Anna Pillitteri sopratutto sui temi legati alla Madonna. Inoltre per il Santuario, nel 1969 fece realizzare una strada carrozzabile, per fare in modo che con le macchine vi si potesse arrivare, da allora cominciarono i pellegrinaggi anche dei forestieri al santuario. Fu sempre legato ai giovani, prendendo come esempio San Giovanni Bosco, per Bisacquino si preoccupò di realizzare quattro scuole superiori, due ancora operanti la ragioneria e l'Agraria G. P. Ballatore. Più di trenta giovani di Bisacquino coinvolti dal suo entusiasmo si fecero sacerdoti, preoccupandosi mio zio di trovare i fondi necessari per essere mantenuti in seminario. La palestra del paese, il rifacimento delle fognature, i fondi per la ricostruzione delle case danneggiate dal terremoto, l'ufficio postale, la costituzione di una squadra locale di calcio si devono a lui. Quando mio zio nel 1952 arrivò a Bisacquino, visto che nel 1950 per allargare la Via Roma era stata abbattuta la Chiesa dell'Ospedale trovò i fondi regionali per rendere la parte dei locali rimasti utili come salone parrocchiale; lì vi fondò il circolo di Azione Cattolica, la Pro Loco e la squadra di calcio. Legato alla chiesa madre, che non subiva dei restauri strutturali sin dalla sua fondazione, si preoccupò di reperire i fondi necessari utilizzando i finanziamenti del terremoto per aggiustare la chiesa. Nel 1975 fu colpito da un infarto, ma volle continuare la sua attività, fondando tra l'altro al santuario della Madonna del Balzo la Radio Monte Triona la prima radio locale delle nostre zone. Nel 1976 scrisse un libro che pubblicò sui canti popolari religiosi bisacquinesi, intervistando alcune persone anziane. Morì come sempre aveva vissuto povero, il 23 febbraio del 1977 a soli 51 anni d'età; scrisse su di lui Mons. Saverio Ferina "per venticinque anni portò a Bisacquino una ventata di nuovo, morì nella pace dei giusti e si spense per Bisacquino quel suo figlio che tutti chiamavano l'apostolo del sorriso".



Della vita di mio zio l'avvenimento più bello è che quand'era bambino, ogni giorno ritornando da scuola passava davanti la casa del sig. Antonino Costa, allora le case stavano per lo più con la porta aperta e mio zio si fermava ad ammirare un meraviglioso orologio a pendolo, così che un giorno il sig. Costa gli disse "se un giorno ti farai prete ti regalerò l'orologio!", ma dopo poco tempo il sig. Costa morì. Quando mio zio fu grande si fece prete, il giorno della sua ordinazione, quando ritornò a Bisacquino, mentre era riunito in casa con alcuni suoi familiari, sentì bussare alla porta, era Giuseppina Costa figlia di Antonino che gli aveva portato in dono l'orologio del padre….. 








Il Frate dei bisacquinesi Antonio Ferlisi











Ricordo che finita la scuola media mio zio il Decano Don Lino Di Vincenti allora arciprete di Bisacquino mi propose di trasmettere alla Radio Monte Triona una emittente privata che si trovava al Santuario della Madonna del Balzo, per cui per dieci anni ebbi la fortuna di conoscere Frate Antonio Ferlisi. Frate Antonio come era solito chiamarlo i bisacquinesi era una persona buona e dal carattere cordiale, io, coinvolsi altri miei amici coetanei a trasmettere alla radio, per cui Frantoni per noi diventò uno di noi, ogni giorno quando il pomeriggio andavamo alla radio lo vedevamo arrivare nello studio con la sua umiltà; quando capitava che ci andavamo la mattina al Santuario a mezzogiorno ci chiamava per salire sul campanile a suonare le campane, un tempo lo faceva lui ma ormai che aveva più di settant'anni gli piaceva ascoltare a noi che suonavamo le campane dando dei giudizi lusinghieri per come avevamo suonato. Nelle sere d'inverno ci faceva compagnia alla radio raccontandoci i suoi ricordi e storielle avvenute nelle nostre zone ai suoi tempi. Era consuetudine che ogni anno vedevamo dal Santuario i giochi d'artificio per la festa della Madonna della Favara a Contessa Entellina. Frate Antonio era molto devoto alla Madonna del Balzo una volta mentre salivo a piedi al Santuario vi.di in lontananza che nella strada sacra c'era Frate Antonio, affrettai il passo e lo chiamai, avvicinatomi lo trovai che a piedi nudi stava facendo per devozione a piedi scalzi un viaggio alla Madonna del Balzo; scherzando gli dissi che per lui non c'era di bisogno vista la grande devozione che aveva per la Madonna e che per cinquantanni aveva fatto voto di povertà ma lui mi racconto questo fatto: l'altro giorno mentre stavo collegando nella Chiesa dei fili della luce io che ero convinto al cento per cento che avevo staccato il contatore ad un tratto ho avuto davanti a me l'immagine della Madonna del Balzo, che mi diceva di staccare la corrente, andai a verificare ed in effetti il contatore non l'aveso spento". Frate Antonio ogni mattina si alzava molto presto. andava in chiesa a pregare e a sistemare i fiori che i fedeli portavano, era solito andarsi a coricare alle otto della sera, tranne quando c'ero io o qualcun altro al Santuario, allora ci faceva compagnia e certe volte si vedeva che era stanco dal sonno ma restava lì; le lampade della via sacra allora si accendevano dal Santuario e Frate Antonio aspettava che noi che allora non avevo la macchina attraversassimo la via sacra per arrivare sino ai Pileri per spegnere le luci, ci voleva circa mezzora; certe volte noi lungo la via sacra visto che c'era il buio della notte ci mettevamo a correre altre volte andavamo piano, ma non so come facesse, sembrava che ci vedesse, le luci si spegnevano sempre appena arrivati ai Pileri. Era veramente una brava persona. Per quanto ha fatto in vita, può essere annoverato tra i Santi del Paradiso.


LA MADONNA DI LU VAZU DI BUSACCHINU







LA MADONNA DI LU VAZU DI BUSACCHINU









“C’era na vota, tantu tempu fa, un giuvìne busacchinàru, Vicenzù Adòrnu, chi facia u crapàru, accussì bònu di nùn aviri cchi diri cu nùddu.


‘Na jurnata, ‘a punta ri l’arba, ntò mèntrì facia vardanìa e cuvirnava ‘na picchìdda di crape e di aggnèddi, nna ‘na mannara, sùpra lu mùnti Triona, propriu quasi a lu vòscu di nucipersi di li Cervi, vidìa, a dda bànna, nmèzzu da muntagna, piddaveru, spuntàri na spera di luce, chi accuminciava pròpiu ddavìa, darrèni na rocca.


L’Addornù abbaddiatu si sintia annurvàri, ma ritruvàtusi, ‘mprisùsu, a muzzu, pigghiàva u’ sdirrùpuni e juncìa a ‘nfilàrisi dùnne spuntava a luce, ca era ‘na grutta di pètri; ‘ntà sta grutta proprio a prima trasuta, c’era tìnciuta tra li pètri, ‘na Madonna cu lu Bammìnu, cu l’Angili di darreni chi scummigghìavànu la pittura, scippànnu lu cummogghìu.


Ntà stù mèntri, vèru e propriù astura, n’atru capràru busacchinàru, Ciccò Pirrittùni, sissantìnu, ddassutta da muntagna, a quannu a quannu purtava a pàsciri i pècure, vidìa, cumpariri di dan càpu a stissa luce, ca puru l’armali nun putiànu abbintari. Ciccò n’arrisstàva cussì allucciàtu ca ‘ncuntinuazziòni u purtava pì spressione ai figghì.


Dicchiù, midèmma la stissa matinata un monàcu, frati Angìlo di Giuliana, di stàllu a Sant’Anna, vicinu Chiusa, astura a lu fari jornu, ntà lu sònnu, vidìa, na palumma chi ghìa ncèlu e la muntagna di lu Triona tutta alluciata, cu tanti divoti, addinucchiati, agnuniàti vicìnu a ‘na grutta, pirsuaduti ca ddà c’era la Madonna.


Apprèssu, quattr’anne cchìu tàrdu, un sabatu di marzu, vinni a la Matrice un monacu di missa di Termini, padri Bonavintura. Era tempu di Quarisima e ‘nstù monacu, ca era valenti pridicaturi, dissi parlannu di li santi chi prutiggiànu Busacchìnu, ca cci vidia puru la Madonna e tantu lùstru su mùnti Triona.


Ma, ancora, u chiù megghiù avia di venire.


Allura, ‘nta lu stìssu mise di marzu du’ carusi di la campagna, chi si truvavanu ‘nta li timpi di lu mùnti, di n’autra banna di la mannara, scoprinu puro iddi la grutta.


Iddi ‘ngattàtisi na la grutta, vidènnu la Madonna ntà la rocca, si mettìnu a prigari, ma dòppu n’anticcchia, pi ‘nnulenza, si mettunu a jucare. Accussì, unu di iddi, chi avia pirduto, pochi dinari, pi currìvu, cumìncia ad abbintàrisi cu la face, di nna lu latu puntùtu, nna la frunte di la Madonna.


Ma, subitu l’aggrissùri vinia frinatu da un lampu e s’abbannunava agghiazzatu ‘nterra, mentri dìnnà frùnte da Madonna pirciliàvanu ‘uccie di sàngu.


Sfirniciativi a la smania di lu cumpàgnu. A l’urvìsca currìu pi la trazzera e agghicà a Busacchìnu, e a tutti chiddi chi s’impaiàva svintuliàva la nuvità.


Mittuti a conuscènza lu parintatu di lu picciottu, acchinaru tutti ‘ntamati a la muntagna.


La matrì pì la firnicìa facia prigare: “su Mùnti Triona, c’è fatta na via, curremu divoti, ludamu a Maria”.


Dinnànzi a la grutta, lagrimannu, la matri cumincìa a stujari, cu l’acqua ri na bummula di crita, li ‘uccie di sàngu di la Madonna, poi abbattuta, abbrazzannu lu figghìu si mise a prigare a dinòcchiuni.


Na parola di la Madonna fa e a fari beni nun ci voli assai, cussì tutti vistìru abbirarisi lu miraculu!


Lu giuvìne abbrivìsciu e allintata la firnic
ia, tutti a dinòcchiuni, ricurreru a ringraziare la Madonna, pi la cuntintizza.


A corpu affaccìaru li marranzani e la fudda, chi s’avìa criatu, fici festa a la Bedda Matri.






Saverio Di Vincenti

La Neve a Bisacquino




Santo Cancelliere, provvisto di un bottiglione, si stava recando a piedi nel quartiere Montonello, perché ci aveva una stalla, dove ci teneva una botte con il vino. In strada, c’erano un dieci persone, tra cui Pietro Fiume che gli dava un passaggio con il suo carretto attrezzato con un mulo, intanto che cercava di districarsi nell’asfalto gelido. Sul carretto, i due si riparavano alla meglio con delle mante e nel mentre che nevicava, attraversavano con il carretto la piazza Scavotto poi la Via Santa Lucia ed infine la Via Roma. In questa via, per pochi minuti, nei pressi della Salita Segretario, Pietro Fiume fermava il carretto, per fare passare il capraio Filippo Guardacoste che con suo cugino Onofrio Cucina, accompagnavano, ad occhio, una cinquantina di capre, dalla mannara della Via Montagna agli stalloni della Pirrera.
Aveva nevicato tutta la notte e Santo Cancelliere osservava dal carretto, che la neve finanche copriva i terreni a valle lungo il fiume Bruca, che si trovavano vicino il feudo di Tarucco, un velo bianco, continuo, si perdeva tra i monti di Santa Maria. Sul carretto, Pietro Fiume commentava quel giorno con la neve e si discuteva del fatto che nella discesa della Piazza Triona era facile poter scivolare per il carretto, potendosi andare a tenere fino a davanti al fondaco di Pietro Ringhiera. Per questo, il carretto, arrivava, con non poche difficoltà nella piazza andandosi a posteggiare vicino al carretto di mastro Salvatore Veccia. Quel giorno, nella piazza c’erano tante persone, alcune, erano coperte con delle mantelle, altri con dei paltò, diversi con degli scialli, perché, c’era un freddo da neve. La piazza, era una tipica piazza siciliana, con tanti venditori, per questo, Pietro Fiume vi comprò castagne calde e fave abbrustolite, perché a quei tempi si aggigliava dal freddo. Il carretto di Pietro Fiume, riprendendo la sua corsa, superata la casa di Esposito Spuntone, da dove si diramavano tre strade, attraversava ora l’arco dei Bruno e puntava diritto verso la stalla del vaccaio Michele Riposto. Santo Cancelliere, che era sul carretto, intanto, si accorgeva che sotto l’arco di San Vito si stava riparando dalla neve Gaetana Principale. Santo Cancelliere, quella mattina era equipaggiato con scarponi, per questo non sapeva se andarsi a presentare, comunque, Santo Cancelliere che non era sposato, se ne fregò di andare a prendere il vino, lasciò il bottiglione sul carretto a Pietro Fiume e si andò a dichiarare a Gaetana Principale che era signorina, nevicava buono. 
Frattanto, Pietro Fiume dava col carretto un passaggio a Luigi Sarraco, che aveva perso una capra all’alba. La capra sicuramente si era smarrita nella zona della Villa e Luigi Sarraco pensava che se non la trovava era costretto ad andare dal banditore del paese per divulgare l’episodio. Luigi Sarraco per questo scese nella zona dove viveva il banditore Salvatore Lista. Il carretto prosegui con Pietro Fiume verso il quartiere di Sant’Antonio. 
Il banditore del paese, Salvatore Lista, lo stesso giorno abbanniò nella Piazza Triona che s’era persa la capra di Luigi Sarraco e qui ci fu una risata generale da parte dei presenti, perché, Luigi Sarraco non era la prima volta che sbagliava a contare le capre e ne lasciava qualcuna per il violo. 
Comunque, in quello stesso giorno Santo Cancelliere, dopo l’esito positivo della dichiarazione andò a parlare con il padre di Gaetana Principale per spiegare il matrimonio.
Oggi e l’anno si maritarono, testimoni di matrimonio per lo sposo furono Pietro Fiume e Luigi Sarraco. 
Per quanto riguarda la capra circola in paese voce che fu venduta alla fiera di Ribera.

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Il mio paese




IL MIO PAESE



SAVERIO DI VINCENTI




IL PRANZO DI MATRIMONIO


Alla conclusione del matrimonio, la sfilata, che attraversò la piazza, era aperta questa volta dalle donne, compresa la sposa. Vicino a Maddalena, stavano in prima fila le ragazze che ancora non erano sposate, vestite eleganti per l’occasione, le donne più anziane, invece, indossavano degli abiti a giacca accoppiate a delle scialline di svariati colori, tra di loro si chiamavano commari. La casa di Andrea, dove doveva svolgersi il trattenimento, aveva una stanza grande dove c’era l’alcova e due stanze più piccole, alle quali si accedeva scendendo due gradini. Dalla stanza grande, invece nella ferreria di mastro Filippo Montagna, che si trovava nella Via Savoca ci si accedeva tramite un catarratto, seguito poi, da una scala in pietra, curva, di undici gradini. Alcuni mobili per fare largo erano stati portati da Luigi Passaggio, che abitava nella Via Colca, compresi i i trispi del letto ed i materassi; lavoro di smontare che era stato effettuato con l’aiuto del cugino Ignazio Cordaro che aveva un carretto. Nella casa di Andrea, quel giorno, perciò, c’era movimento, perché si apparecchiava per tutti gli invitati al matrimonio. Con l’arrivo del corteo con a capo Andrea Montagna, il gruppo si organizzò nei tavoli sistemati nei vari punti della casa. Proprio, in quel momento, l’orchestra, che si trovava nella stanza grande, incominciò a suonare la romanza “il volo degli angeli”. Dopo poco, Maddalena Belvedere, fece ingresso nella stanza grande  e cominciò a fare largo con Andrea ai parenti. Mastro Filippo Belvedere, che si trovava in questa stanza, quel giorno aveva anche altri pensieri, perché doveva sorvegliare la figlia Giuseppina, a cui aveva dato il consenso di frequentare in casa Michele La Farina, che giustamente era seduto in un’altra stanza. Vito Previdenza cantava e Domenico Prospero con l’orchestra l’accompagnava, quando, incominciò il pranzo. Oltre il pane ed il vino locale, per primo fu servita della pasta di casa a forno, detta con il formaggio, condita con del sugo di pomodoro, del formaggio e della carne. Per secondo delle bistecche panate, uova sode e dell’insalata. In ultimo, delle aranciate, il riso con il dolce ed i cannoli di ricotta della casa. Quasi al termine del pranzo, Francesco Belvedere, che era dilettante in questo, fu chiamato da Rosetta, perché si doveva fare una bicchierata con il vino per gli sposi. Così, Francesco Belvedere, si mise a capo di un tavolo circolare, u tunnu e intonò nel silenzio della stanza: "In questo paese di Bisacquino, abbondante di olive e di vino, con spighe e frumento, noi ci troviamo in questo tempo. Andrea ha avuto questo piacere, di volere a  Maddalena Belvedere, e in questa  giornara di felicità, con amici e parenti si trova qua!. Di San Francesco di Paola alla Badia, tutti ci siamo messi in via, per questa grande occasione e per questa felice realizzazione; per questo, con questo vino così fino,  faccio  un brindisi agli sposi,  con tutto Bisacquino!"
Fu in quel momento che Domenico Prospero attaccò a suonare il brindisi della Traviata, mentre la gente, si andava a complimentare con Francesco Belvedere, che pareva studiato, brindando con il vino, mentre nella stanza grande si cominciava a servire la cassata.

LA SERATA DI BALLO LISCIO

La sera seguente sempre nella casa di Andrea si tenne il “suono”, cioè si ballò; naturalmente furono invitati quelli che avevano partecipato al pranzo di matrimonio, ma anche quelli a cui ci si “teneva”, perchè per il pranzo non era stato possibile invitare tutti perché erano tempi scarsi. Nella casa dei Montagna, quella sera, c’era anche Michele Montagna, che alcuni mesi prima, con l’occasione di conoscere la cugina, si era fatto fidanzato in casa, con Giuseppina Belvedere, sorella di Maddalena. L’orchestra, intanto, si era sistemata in un angolo della stanza grande, proprio allo stesso posto dov’era sistemata, all’ora di pranzo. Finalmente, arrivarono Maddalena Belvedere ed Andrea Montagna: gli sposini; così, cominciarono i balli. Dapprincipio, ballarono solo Maddalena e Andrea, un bel valzer dal titolo “La luna romantica”, poi, nella mazurka successiva, molti si misero in mezzo. L’orchestra di Vito Previdenza aveva terminato di suonare un tango argentino, quando Sebastiano Prospero, cugino di Andrea, fu invitato a cantare, perché era dilettante in questo. Intanto, mastro Filippo Belvedere, che postiava i nuovi fidanzati, aveva visto che Giuseppina, aveva guardato verso Michele Montagna, per questo l’aveva fatta cambiare di posto. Nel frattempo, alcune persone passavano dalla Via Savoca, vedendo che c’era “suono” e che la porta era aperta, si erano autoinvitati, tra questi Pietro Eliseo. Mastro Filippo Belvedere, quando si accorse che nella sala era entrato anche Pietro Eliseo, che circolava in tutto il paese, che voleva sua figlia Agata, ma che ancora non glielo aveva detto, tra di lui pensò, “e ora sono due da controllare” e chiese ausilio alla figlia Paola, che già era sposata; la quale però non era della sua stessa opinione, infatti diceva “falli divertire che sono giovani!”. Durante i balli mastro Domenico Belvedere, controllava se le figlie ballavano larghe con i loro spasimanti mentre, Paola quando era seduta invitava le sorelle a ballare un poco più strette. Il bello successe,quando, Francesco Belvedere, che era un poco “brillo” disse “Attacca Bastià” e comincio a chiamare la “cuntrananza”. Andrea Montagna andò ad invitare Maddalena, Michele Montagna andò ad invitare Giuseppina e Pietro Eliseo a Lucia; in quella confusione, causata dalla tarantella, non s’è ne capì più niente, mastro Filippo Belvedere, pensò “e si fecero i fichi!”; insomma, alla fine della tarantella, addirittura le tre coppie camminavano a braccetto. Verso mezzanotte, dopo di avere distribuito le bomboniere con i confetti, Maddalena Belvedere e Andrea Montagna, salutarono i presenti; in quanto dovevano andare nella loro nuova casa, che si trovava nel Cortile Fontanetta. Fu così, che terminò la serata di ballo; mastro Filippo Belvedere, mentre loro si allontanava per ritornare a casa, tra di lui pensò: “e questa è fatta”.

FONTANELLA

Andrea e Maddalena andarono ad abitare nel Cortile Fontanetta, nel quartiere della Badia nel paese di Bisacquino in provincia di Palermo. Doveva essere un cortile molto antico, forse una volta tutte le case del cortile appartenevano ad un’unica famiglia i Fontanetta. In questo quartiere, le strade erano critiche, con bastioni e scalinate intercalate a mulattiere che si univano a viuzze e cortili. Allora, erano tutte case antiche, appartenute agli avi delle persone che vi abitavano. La loro casa, si trovava, di fronte ad una fontanella ed aveva un prospetto nel quale al primo piano c’era un terrazzo sostenuto da due archi, con una scalinata esterna e sopra di una di queste arcate c’era la porta d’ingresso. Il locale era composto di una camera abbastanza grande, che si trovava dove c’era la porta d’ingresso, da questa sala si accedeva nel vano della cucina, dove c’era un altro balcone, da qui, nella stanza da bagno, poi, c’era il terrazzo che si esponeva nella Via Senapa. I due balconi invece si esponevano nel cortile. Nella prima camera, c’era uno sportello, tramite una scala ricurva di pietra, portava al piano di sotto, che si proiettava nel Cortile Fontanetta, qui Andrea aveva aperto una bottega per la lavorazione del ferro, specializzandosi nel fare zapponi. Era una piccola bottega, con vicino all’ingresso un incudine, con di fronte un bancone ed uno stipo e poco più in là una fornace, che era attaccata al muro in comune con mastro Antonino Aida, che accanto ci aveva una falegnameria. In questa fornace, che ogni volta che si apriva pareva un vulcano, si distingueva un mantice, che mastro Andrea adoperava per rendere ancora più alta la temperatura nel forno, quando ci veniva rinchiuso il ferro, questo faceva si, che le mura interne della bottega, pertanto, erano diventati scuri per il fumo provocato dalle forti temperature. La casa dove erano andati ad abitare Andrea e Maddalena era stata acquistata alcuni anni prima dai Montagna, che l’avevano comprato dalla famiglia Senape. Nel cortile oltre ad Andria e Maddalena vi abitavano le famiglie Aida, Palagonia, Comando, Flora e Fortezza. Erano tutte famiglie con almeno nove figli, tutti nati in quel cortile. Nel rispetto degli usi, i mariti, funzionavano  da capo famiglia,  ma anche le mogli dirigevano in casa, guidando i figli al rispetto delle tradizioni cristiane. I figli davano ai genitori del lei anzi per meglio dire del Vossia. Erano tutte famiglie umili, che vivevano in un’epoca scarsa e irta di ostacoli.
Verso le ore nove del mattino Maddalena si sentì chiamare, s’affacciò dal balcone e vide che giù c’era Giuseppina Palagonia, che l’invitava a scendere; Maddalena si sistemò alla meglio è scese nel cortile; qui in quella calda giornata di Settembre le furono presentate da Giuseppina quasi tutte le donne del quartiere; poi, dopo, Giuseppina Palagonia invitò in casa sua Maddalena. Intanto Gaspare Realistico era andato a trovare Andrea, sperando che in quell’occasione, anche da lontano, avrebbe visto Giuseppina Palagonia. Andrea lo trovò intento a preparare delle falci, che gli erano state richieste da Don Carlo Incontrera, che aveva una masseria in contrada Frascine. In quest’occasione, Gaspare Realistico confidò ad Andrea, che si voleva sposare il prossimo anno. Frattanto, Pietro Palagonia stava uscendo dal cortile con delle capre, quando si trovò davanti a Gaspare Realistico, che era diventato un poco rosso in viso, vedendo il futuro suocero, giusto gli sembrò dirle “benedica”, saluto al quale Pietro Palagonia, rispose con un cenno e proseguì oltre; Maddalena da dietro la tendina, aveva visto questa scena, gli parve opportuno, affacciarsi al balcone, per chiamare il marito Andrea, perché aveva preparato il caffè; così Giuseppina e Gaspare poterono incontrarsi, mentre, nel cortile già si commentava il fatto che Gaspare voleva sposarsi. Comunque, verso le undici, Gaspare lasciò la casa di Andrea e si diresse verso il quartiere della Grazia, giunto nella piazza Triona, Gaspare Realistico, s’incontrò con Vincenzo Fiume; quest’ultimo, gli propose di andare a lavorare da lui, per la raccolta delle olive, Gaspare, che naturalmente non era la prima volta che lavorava da Pietro Fiume, accettò il lavoro.
 Andrea intanto era ritornato in bottega  a fare delle falci, intanto che Madalena si faceva aiutare da Giuseppina Palagonia ad impastare della farina con del lievito di casa; dopo che Giuseppina si era congedata, Maddalena, progettò cosa doveva preparare per il pranzo; decise, allora, di preparare un piatto tipico bisacquinese: allora, cucinò, in un tegame delle uova sode; poi, prese delle fette di carne di vitello dove, arrotolò le uova sode, con del lardo e del formaggio; condì il tutto con un impasto di pane grattato e delle uova battute e poi legò sempre il tutto con del filo da cucito e finalmente, immerse il tutto, in un tegame con del sugo. Alle ore dodici del mattino, mentre si sentiva l'orologio della Matrice che suonava dandalanda', chiamò Andrea; quest'ultimo, rimase contento di come sapeva cucinare Maddalena. Al termine del pranzo Andrea ritorno in bottega mentre Maddalena andò dalla signora Rossella Aida, ad infornare il pane; quest'ultima, aveva un forno a legna nel cortile. Andrea, terminò di lavorare verso le sei della sera, per cena questa volta Maddalena, preparò delle uova fritte dette a “occhi di bue” anche se Maddalena e Andrea, erano consapevoli che non si potevano campare con tutte queste uova al giorno, troppa grazia.

CAMMARONE

Andrea, quella mattina, si alzò di buon ora, in quanto doveva consegnare delle falci a Don Carlo Incontrera, che abitava nel Corso Triona; giunto in questa strada, Andria bussò al civico 21. Dal balcone centrale, s’affacciò Don Carlo Incontrera, che invitò Andrea a salire. La famiglia di Don Carlo Incontrera, era una delle più importanti del paese, come si poteva anche notare dalla casa dove abitava; infatti: si esponevano nel Corso, cinque balconi, con delle inferriate stile barocco. Andrea, alzò il lucchetto del portone, posò le falci, all’ingresso e si trovò davanti una grande scala; era una scala, tutta in pietra battuta, larga circa cinque metri, era veramente molto bella, con circa trenta gradini. Don Carlo, si fece trovare alla fine della scala ed invitò Andrea ad entrare in una stanza grande: il “cammarone”; era anch’esso molto bello, c’erano in tutta la stanza, appesi al tetto, nove lampadari e nel soffitto c’era un grande affresco. Don Carlo offrì ad Andrea del rosolio, i bicchieri decorati, erano di colore verde scuro con rifiniture in colore oro; dopo di avere ricevuto il denaro per le falci, Andrea, mentre scendeva le scale, tra di lui pensò, che la vita a lui aveva dato molto di più, perché non c’erano ricchezze, che potevano valere quanto Maddalena.
Gaspare Realistico, in quell’istante, si stava recando a piedi nel feudo di Giammaria; era già giunto in contrada Pomo di Vegna, quando incrociò sei mule, cariche di olive posti in dei “zimmili”, guidate dal contadino Ignazio Cordone. Gaspare Realistico, arrivò nelle terre di Pietro Fiume, intorno alle ore sette del mattino, si accorse, che l’annata era buona e che già alcune persone raccoglievano le olive, per cui lui decise di mettersi subito al lavoro; in lontananza alcune persone, sparpagliavano le olive per pulirle. L’area, era una parte di terreno battuto, dove dei muli, guidati dal contadino Saverio Bordi, venivano caricati col le olive già pulite e al termine di questo lavoro, potevano essere trasportati al frantoio. C’era molto freddo quel giorno ed il cielo era coperto di grigio, Gaspare Realistico, dopo circa due ore di lavoro, era veramente molto stanco, ma in ogni momento, la sua mente andava solo a lei Giuseppina Palagonia. Maddalena, che quella mattina era vestita con una vestaglia per uscire, colore marrone chiaro, era andata a riempire un secchio di metallo, alla fontanella, passando, davanti l'edicola della Madonna del Balzo, si era fatta il segno della croce, poi si era fermata a parlare (cioè a fare cortile) con Giuseppina Palagonia; quest’ultima le aveva annunciato, che Gaspare Realistico aveva intenzione di sposarsi il prossimo anno e che per questo cercava una casa in affitto; nel Cortile Fontanetta in effetti, c’era una casa vuota appartenente ai Flora, ma ancora non si erano messi d’accordo sul prezzo. Intanto, al centro del cortile, molti bambini giocavano, mentre le donne davano da mangiare a delle galline, che si trovavano anch’esse nello spiazzo. Mastro Giuseppe Palagonia, nonno di Giuseppina, era seduto in uno dei gradini esterni della sua abitazione, fumava del “cintrato forte” che si diffondeva nel luogo; la moglie, Giuseppina Segretario, era seduta con Filippa Fortezza, anch’essa in avanti negli anni, in un angolo del cortile, parlavano dei tempi andati. In questo scenario, il freddo umido e secco e l’aria dell’autunno, contribuivano a rendere piacevole il vivere ed il lavorare nel cortile Fontanetta.       

Nel cortile Fontanetta, la famiglia Montagna si era ben inserita con le altre famiglie, per questo nei pomeriggi d’estate, quasi al tramonto, si riunivano all’aperto per recitare il rosario seguito dai racconti. A quel tempo, infatti, non c’era ancora nei paesi l’energia elettrica, per questo le strade di sera erano già al buio. Nelle case infatti, si adoperavano lumi ad olio, che generalmente erano fatti con metalli e che terminavano con un tubo di vetro, si adoperavo anche dei piccoli lumi a petrolio e delle candele di cera. Nelle case delle famiglie benestanti, invece c’erano i lampadari, forniti di candele di cera. Maddalena Belvedere con Giuseppina Palagonia, si erano recati nella Via Ecce Homo da mastro Giuseppe Universo che aveva una bottega di calzolaio; in quanto Giuseppina doveva fare riparare un paio di scarpe con i tacci, appartenenti al fratello Ignazio, mentre Maddalena un suo paio di scarpe, dove ci volevano i sopratacchi. All’uscita dal calzolaio, incontrarono Rosa Esposito, con la quale si fermarono a parlare, in quanto era loro coetanea. La discussione si concentrò sull’imminente fiera del due luglio e sugli acquisti che ogn’uno di loro si proponeva di fare per la casa.
Andrea, intanto nella sua bottega era indaffarato, perché voleva fare una sorpresa a Maddalena. Per questo, infatti, aveva chiesto collaborazione a Salvatore Aida che faceva il falegname e a Gioacchino Fortezza che era carpentiere. Nel cortile, c’era movimento, infatti vi erano stati trasportati dai muratori Filippo Guana e Marco Trippodi, con una carriola, della calce, della sabbia rossa e delle pietre. Luigi Imperiale, suocero, di Salvatore Aida, ormai in avanti negli anni, non riusciva a capacitarsi, su quello che dovevano fare, in quanto tutti facevano le ombre. La luce del giorno non c’era più. La notte con le sue ombre copriva Bisacquino. Con il suono della campana della Matrice che annunziava con l’Ave Maria la fine della giornata, tutti gli abitanti del cortile, dopo di avere recitato una preghiera in comune, erano rientrati a casa, lasciando pero le porte aperte, con le tendine, perché faceva un caldo da morire. Fu allora, che entrarono in movimento Gioacchino Fortezza con i suoi manovali, i quali posizionarono nei quattro angoli del cortile quattro fanali in ferro, costruiti da Andrea Montagna, per quanto riguarda la sistemazione dei vetri era stata opera di Mastro Salvatore Aida.
I fanali erano stati realizzati con maestria, aveva ogn’uno un piede a tubo in metallo, che teneva il fanale; quest’ultimo invece, aveva una lanterna che finiva nella cima con una piccola cupola, da dove usciva il fumo dell'olio che si andava erodendo. Fu quando, Gioacchino Fortezza i due manovali e Salvatore Aida, accesero i “mecchi” delle lampade, che gli abitanti del Cortile s’affacciarono, per vedere il lustro che proveniva da fuori. Andrea, che intanto, era salito a casa, disse a Maddalena di affacciarsi al balcone, vedendo l’opera che aveva realizzato Andrea, Maddalena Belvedere restò senza parole. Pietro Palagonia, vedendo anche lui il lustro, restò così commosso, che disse alla moglie di mettere nella pentola della pasta, per offrirla e fare festa con il vicinato, alla pasta si unirono anche delle patate, cotte nei tegami della famiglia Flora. Poi, Gioacchino Fortezza prese il marranzano, Filippo Comando il “friscaletto” di canna  e Pietro Palagonia il mandolino, cantarono la ballata “Nicuzza”. Salvatore Aida commentando l’illuminazione e vedendo quello che aveva realizzato Andrea Montagna, disse alla moglie Leonarda Esposito, con riferimento alla venuta di Andrea e Maddalena, queste parole: quartara (brocca) nuova, fa sempre scruscio (rumore) buono!

LE SERE D’INVERNO

Le strade erano, in genere asfaltate con delle pietre, alcuni passi solo con della terra. Non esistevano grandi vie nel paese ad eccezione delle vie maestre lunghe in genere diversi metri di larghezza. Qui si scorgeva qualche cavallo, ma più di frequente un mulo con il suo carico, o attrezzato con un carro al trasporto di persone. Le strade, erano popolati, da animali domestici, polli, maiali, capre e gatti e naturalmente dai bambini che vi giocavano. La strada era inoltre popolata da botteghe varie e da venditori ambulanti che alzavano la voce per pubblicizzare i prodotti. Andrea che intanto era diventato il capo di una nuova famiglia, si serviva nell’educazione dei figli dell’aiuto di Maddalena. Ambedue sognavano che i figli maschi, avrebbero continuato la professione del padre mentre le figlie femmine che avrebbero molto presto trovato un marito. Le giornate nella loro casa, passavano con serenità, era un’abitazione povera con pochi suppellettili ma dove si respirava un calore particolare: il calore umano, il rispetto e l’unione della famiglia. Di giorno i loro bimbi svolgevano volentieri giochi secolari nel cortile con gli altri bimbi. Nelle sere d’inverno, si stava quasi sempre in casa, perché c’era molto freddo; quando pioveva forte e si sentivano i canali  dell’acqua scendere nella Via Ecce Homo e nelle vie limitrofe, Andrìa, riuniva i suoi bimbi, Filippo, Rosa, Domenico, Luigi, Saverio, Vito, Pietro e Calogero (Caliddò) nella stanza dove c’era il lume a petrolio sopra il canterano, per distrarli dai temporali. Andrìa, riportava discorsi antichi, come quello che si snodava sulla rappresentazione della Madonna su di un balzo del monte Triona. Andrìa, nell’Alba sul Triona, diceva che in tempi passati, in inverno, c’era per molti mesi la neve e che inoltre, capitava che sul calar della notte, c’erano sempre tante tempeste, con l’acqua che, scendeva dalle montagne e si univa con quella dei rivoli del paese, divenendo un fiume che percorreva l’abitato. Per questo, era nella bella stagione che c’era la festa al Santuario della Madonna del Balzo, nella prima quindicina di agosto, all’alba. Era all’aurora, appunto, che si intravedeva il Paradiso all’orizzonte, da sopra le montagne.

IL MIO PAESE


Gli anni passarono, anche per Calìddo, figlio minore di Andrìa e Maddalena,  giunse il tempo di partire per il militare. La luce del giorno non c’era più. La notte con le sue ombre copriva Bisacquino. Con il suono della campana della Matrice che annunziava l’origine della giornata, Calìddo, si alzò e usci nel cortile. La prima persona che Calìddo vide, in lontananza fu Pietro Fiume che, con una quartara di creta, si stava recando alla fontana. C’era un freddo intenso, ed i fanali a petrolio coloravano, nel buio, il cielo blu scuro di una luce esclusiva, mentre la neve continuava a cadere nel cortile e nelle strade adiacenti. Nel frattempo, altre due persone si erano avvicinate alla fontanetta, di cui una di loro aveva gettato un rapido sguardo di arrivederci verso Calìddo.
Calìddo, aveva avuto il tempo, di intuire quella lettura veloce, quando cominciò a nevicare con più intensità. Così, mentre cadeva la neve e soffiava forte il vento, Calìddo Montagna e Bianca Florena, cominciavano, quella nuova alba tra vicoli stretti e quasi al buio.
Bianca Florena aveva un viso grazioso, si occupava di prepararsi il corredo ed era una persona sistemata. Calogero Montagna, poco dopo, se ne sarebbe andato con il treno delle dodici,  a salutarlo alla stazione c’erano tutti i parenti. Calìddo, giunse tra i monti al confine con la Francia due giorni dopo, intorno alle cinque della sera, di quel giorno di dicembre, c’era la neve. Indossava un vestito blu, al quale aveva attaccato un paltò. La caserma era molto grande, conteneva una lunga e larga piazza d’armi e molti reparti. Dopo di avere preso possesso dell’equipaggio militare in uso negli alpini e del locale per dormire, Caliddò, in marcia si avviò con gli altri verso la mensa, che si trovava in un altro padiglione. Erano circa le dieci della sera, quando fece rientro nel dormitorio. Passarono circa due anni da quel giorno, cominciava per l’Italia, la seconda guerra mondiale. Calogero, era già, in trincea, tra quei monti. Un giorno come tanti, fu organizzata un’azione di avvistamento, per cui la pattuglia composta da quattro persone tra cui  Calìddo, uscì dal campo al mattino.Nel pomeriggio, al rientro, sopraggiunta una bufera di neve, Caliddò si perdeva tra quei monti.Allora, più tardi, si rifugiava in una caverna per proteggersi dalla forte nevicata.
Nevicava forte quella sera, l’oscurità era scesa e la grotta era ben illuminata da una esile luce, provocata dal fuoco accesso da Calìddo per riscaldarsi. Calìddo aveva notato che la caverna sicuramente già era stata il rifugio di qualcun altro perchè all’interno aveva trovato delle minutaglie.
Durante quelle ore, Caliddò, pensava, ogni tanto, a Bianca Florena, la donna che non poteva allora  figurarsi sarebbe un giorno diventata sua moglie. Poi, immaginava il suo  paese, quello che più l’affascinava in quel pensare, era il vedere le strade e le viuzze sotto un’altra luce, quella della lontananza. Bisacquino, appariva, stupendo, come sempre, con i suoi fanali, la piazza, le fontane, le strade acciottolate, le botteghe e quelle persone che vi camminavano. Fu allora, che Calìddo, aspettando l’alba, rivisse quelle splendide sere d’inverno, quando suo padre, raccontava l’alba sul Triona. Pensò Caliddò come sarebbe bello rivedere "il mio paese".



RITORNO A CASA

Calìddo Montagna, giunse con il treno delle nove della mattinata, quella calda giornata di agosto, a Bisacquino, in contrada Stazione. La seconda guerra mondiale era ormai un triste ricordo, finalmente, quel giovane soldato, partito circa nove anni prima, ritornava al suo paese. Calìddo, era un uomo di ventisei anni, occhi cerulei, capelli castano scuro. Indossava una mimetica verde, alla quale aveva unita una casacca pure verde oliva e portava, con se, un tascapane. Alcuno aveva notizia del suo arrivo quel giorno. Per questo, Calìddo, andò, a piedi, verso l’abitato, prese davanti un mulino e dentro il paese costeggiò Santa Caterina, poi, si diresse per la Badia. Percorse un viale, poi un vicolo, superò alla sua sinistra la Chiesa di San Francesco d’Assisi e si trovò nella Via D’Accurso, esponendosi nella larga e panoramica scalinata dell’Ecce Homo, così, giunse nel Cortile Fontanetta. Come quand’era negli Alpini e scalava una montagna tra la neve, con la stessa determinazione che ogni passo in più è la conquista di un sogno, su quel davanzale, Calìddo, girò il lucchetto della porta d’ingresso ed in quella umile dimora vide una donna con i capelli divenuti vecchi, seduta là in un angolo, era la madre, Maddalena. Gli occhi di Calìddo e Maddalena s’incrociarono solo per un attimo, ma quel momento a Calìddo come a Maddalena non sembrava vero e forse non sarebbe bastata una vita intera per raccontare quel sentimento. Calìddo, portava con se una foto di Maddalena, l’aveva guardata ogni mattina, all’inizio di ogni nuovo giorno, anche quando ormai era scolorita, l’aveva stretta specialmente a se nelle sere buie, quando la demoralizzazione, in quella guerra senza senso, prendeva il sopravvento e lui, aveva avuto la sensazione di non farcela. Calìddo, in quei momenti aveva capito però, anche, lo scopo della vita, negli insegnamenti ricevuti da Maddalena: la devozione alla Madonna del Balzo, il fare del bene, la pazienza ma soprattutto la gioia di vivere, l’accontentarsi del necessario e l’umiltà. Maddalena, era una persona semplice, aveva lavorato tutta una vita, aveva incontrato grandi dolori ma anche tante gioie, con Andria aveva vissuto tutta una vita creando quella famiglia che sarebbe continuata nell’eternità, come in quel giorno, quando Andrìa, gli aveva dichiarato con una voce ormai esile, che non sarebbe entrato nel Paradiso, se prima non l’avrebbe raggiunta e così, poi era volato via. Maddalena, ogni alba, alzando gli occhi al Cielo, aveva pregato ed aveva chiesto di poter rivedere suo figlio Calìddo, almeno una volta, prima di morire ed ora in quel momento, lei era convinta, che Dio nella sua bontà infinita glielo aveva consentito. Alcuni dei fratelli e delle sorelle di Caliddò erano già sposati, per questo di lì a poco quella casa si popolò di tanti piccoli Andrìa e Maddalena e di altri nipoti di Caliddò, addirittura uno portava il suo nome. Nella fantasia, Caliddò, le aveva immaginate diverse le stanze di casa sua, più conosciute, adesso, nella realtà, anche se tutto era come prima, non riusciva a conciliare la sua immagine con quella vera. Nella prima stanza sulla destra, in un’alcova c’era un letto matrimoniale in ferro battuto, ordinato con due materassi di lana per ogni lato, delle lenzuola ricamate ed una cotonina color porpora. Nella parte destra del mobile del letto vi era un comò con tre cassetti, con lo specchio unito al muro, mentre nella parte sinistra delle sedie ed un tavolino, riparato da un tessuto spesso pregiato, tra il grigio ed il verde chiaro, invece, nella parte frontale c’era un canterano, sopra il quale era sistemato un ritratto di Andrìa, con accanto una lampada ad olio. Calìddo, davanti a quella foto asciugò una lacrima, era stato bello avere avuto un padre come U Pà, Andrìa. Nell’altra camera, si trovavano il forno a legna e la cucina a vapore, che avevano come collegamento dei mattoni di ceramica tra il grigio chiaro e l’azzurro; era quella anche la stanza da pranzo, con un tavolo, un armadio, una credenziera ed alcune sedie.
A mezzogiorno e mezzo, tutti i figli di Maddalena, compresi quelli maritati con le rispettive famiglie, si ricongiunsero per far festa a Calìddo. Nella stanza da pranzo furono servite delle lasagne di casa in delle tavole, chiamati i scanatùri, utilizzate anche per far asciugare al sole la salsa asciutta o per impastare il pane. Per Calìddo, sentire il suono di quei cucchiai che s’inabissavano nelle lasagne con il sugo, nelle tavole, era meglio del concerto della banda musicale, nella festa principale del paese, perché, quel suono aveva il sapore di casa. Aveva ragione Andrìa, quello era il miglior piatto del Paradiso. 
Alle tre e quindici del pomeriggio, Caliddo uscì di casa, quasi davanti la sua porta ad aspettarlo c'era Bianca, che aveva saputo del suo arrivo, quel giorno anche se non era domenica era vestita in maniera molto elegante agli occhi di Caliddo sembrava una principessa, quelli occhi grandi castani, i capelli lunghi che scivolavano nelle spalle, il suo sorriso ed il suo portamento testimoniavano questo agli occhi di Caliddo. Bianca, non disse nulla, ma Caliddo le disse che era molto bella. Tutti e due, cose giuste, Caliddò e Bianca accanto facevano figura. 
Più tardi, sotto un paracqua scuro, quella sera che diluviava, Calìddo, scendeva a piedi una stretta scalinata nella Via Conceria, lasciandosi alle spalle la Piazza Triona; intanto vedeva che nel paese, visto che era il primo giorno dopo tanto tempo che pioveva, che la gente di nascosto gettava nella lavina tante cose: sterro, sabbia, carbone, legname, pezzi di stoffa mobili ormai vecchi. 
Poi, superato uno scacchiere, Caliddo si era riparato, sotto l’arco della Madonna della Volta, perché diluviava. Di tutti gli archi di Bisacquino, questo, per com’era stato costruito era il più caratteristico ed aveva, inoltre, all’interno un’edicola votiva della Madonna del Balzo. Nello stesso momento, quella sera, anche Luigi Valle, proveniente dalla Via Florena, si riparava, dal temporale, sotto l’arco. I due, si misero, a commentare, la gran quantità d’acqua, proveniente dal ponte della piazza e Luigi Valle, vedendo nella lavina, un corso d'acqua che scorreva al centro della strada quando pioveva, i pezzi vecchi di mobilia ed il materiale dell’edilizia, affermò, con spirito di osservazione:
<< questa sera, chi si può aiutare, s’aiuta! >>.



Saverio Di Vincenti










Decano Giovanni Scavotto


Saverio Di Vincenti 







Giovanni Scavotto
Il Pastore alle sue Pecorelle 














                                                                                           
                                                                                           

                                           A mio madre e mio padre dai quali                                                ho appreso ad avere fiducia in Dio
































PRESENTAZIONE


Per quelli che come me, hanno vissuto nel centro storico di Bisacquino, è comprensibile svelare i segni di generazioni passate che vi hanno vissuto, le chiese, gli archi, le case di mattoni e di pietre, affrontando il tempo, diventano testimoni muti, per cui io ho cercato di descrivere la loro storia.
Le strade strette e tortuose, le viuzze ed i cortili del centro storico, sono anche le strade dei giochi, infatti lì, trascorrevamo ore ed ore, divenendo depositari dei segreti che quei luoghi svelavano, tra quei sassi amici.
Era lì, che si incontravano i primi amici, con i quali si affrontavano i primi dialoghi sulla storia trascorsa del nostro paese, in quei luoghi, sorti all’ombra della chiesa Madre, che con il suono delle sue campane,  segnavano i momenti più belli della nostra vita e con noi che inconsapevolmente, attraversavamo le strade di questa storia che vi vado a raccontare.
Torniamo, in questo volume, indietro nel tempo, tra quelle strade del centro storico, precisamente al tempo in cui visse il Decano Giovanni Scavotto, a quell’epoca il tenore di vita di molte persone era basso, la popolazione continuava in gran parte a dedicarsi all'agricoltura con mezzi ancora rudimentali ed all'artigianato, erano tempi di lunghe carestie e tumulti popolari. Nelle vie del centro storico, allora abitava gran parte della popolazione, erano tutte case antiche, appartenute ad antenati, la cui storia si leggeva tra quelle mura.
In questo contesto, in cui, la Sicilia fu percorsa dai moti rivoluzionari che portarono all’Unità d’Italia, svolse la sua attività sacerdotale il Decano Giovanni Scavotto, io qui ho cercato di raccontare la sua vita; ringrazio Don Lino Di Vincenti, Decano di Bisacquino, per l’introduzione.  
                                                                     


                                                                   L’autore






























INTRODUZIONE

                                                                                                                                       
Eventi personali approdano al Decano Giovanni Scavotto, che mi è gradito qui richiamare.

Ricordo quando avevo sedici anni, era il 1952, quando, trovandomi, con mio fratello Don Calogero Di Vincenti, al Cimitero di Bisacquino, perché lui era stato nominato Decano Arciprete del paese, il custode Sig. Cosimo Bruno, ci volle accompagnare a vedere il luogo dove era stato sepolto il padre Decano Giovanni Scavotto. Il sepolcro si trovava nel viale principale, all’ingresso del Camposanto, nella nuda terra, era circondato da alti cipressi e nella parte centrale era impiantata una Croce.

Ci trattenemmo in quel luogo, giusto il tempo, di recitare qualche preghiera e di apprendere dal custode delle notizie sul padre Decano.

A cominciare da allora, appreso, che non c’erano parenti in vita, quel sepolcro è stato curato anche dai miei familiari, per cui nei confronti del Decano Giovanni Scavotto è nata una tradizione devozionale.
Ritornai in quel luogo nell’ottobre del 1977, quando, nominato Decano – Arciprete, a seguito della scomparsa di mio fratello, seguendo le sue orme ho fatto visita ai defunti, rievocando davanti quella sepoltura la conversazione di molti anni addietro.
Nel mese di luglio del 2008, Saverio Di Vincenti, che doveva svolgere una tesi di teologia, mi chiese un consiglio, per quanto riguarda il Decano Giovanni Scavotto; confidai nelle sue capacità, anche se comprendevo, che per la limitatezza dei dati e venendo meno le persone che l’avevano conosciuto, la riuscita poteva essere insicura.
Una volta che il testo è una realtà, scomponendolo con oggettività, sicuramente ci saranno delle lacune, ma guardandolo con gli occhi del cuore, rivivremo l’ambiente dei nostri progenitori, che furono anch’essi parrocchiani del padre Decano.
Un altro fatto che mi piace del testo, è la presenza di Mons. Giovanni Bacile[1], che per la mia generazione rimane il padre Decano; nei ricordi d’infanzia penso di averlo visto solo una volta, ma dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto personalmente, come mio fratello Don Calogero, ho capito che ci si doveva trovare di fronte ad una personalità eccezionale.
Una biografia che mancava, nel contesto di Bisacquino, quella sul Decano Giovanni Scavotto, affinché i meriti di questo sacerdote restino scolpiti nel pensiero di tutti e il suo nome permanga nella memoria delle nuove generazioni.

                                                  Decano Don Lino Di Vincenti  



Decano Bellini - primo decano 1746


Capitolo 1
L’UOMO

1.1 LA SUA CITTÀ
In una cornice di colline, monti e vallate, nell’interno della Sicilia occidentale, si innalza il paese di Bisacquino, che ricade nel territorio dell’Arcidiocesi di Monreale. Le sue origini sono saracene e di Bisacquino si parla per la prima volta nell’ottocentoquaranta. Nel 1183, con diploma del Re Guglielmo il Buono di Sicilia, Bisacquino è il primo paese a passare sotto la giurisdizione spirituale e temporale dell’Arcivescovo di Monreale. Un Vicario Foraneo per conto dell’Arcivescovo sovrintende agli aspetti ecclesiali, un Bàlio e quattro Giurati si occupano dell’amministrazione del centro abitato.
Un fatto storico distintivo si ha nel periodo tra il 1660 e il 1664, allorché sul monte Triona, alle cui falde il paese sorge, si ha la scoperta di un’immagine miracolosa della “Madonna del Balzo”, quel luogo diventerà il principale centro di culto degli abitanti di Bisacquino e delle valli confinanti.
Questo periodo è ben descritto dal Can. Mons. Saverio Ferina, che così illustra l’immagine della piazza principale del paese:
      La piazza di Bisacquino è stata sempre il centro della vita cittadina fin dall’antichità: al centro vi era la Chiesa, corrispondente all’attuale sagrato, davanti all’attuale Matrice; a destra dove è l’attuale municipio, vi era la sede del Governatore; dove si trova la navata laterale della Chiesa vi era il fondaco, la taverna, un piccolo albergo, l’abbeveratoio con quattro cannoli e lo spazio tra la Chiesa e il fondaco serviva come mercato[2].

I bisacquinesi s’incontravano, perciò, solitamente nella piazza, al centro del paese, dove c’erano delle botteghe di generi alimentari, delle taverne, il fondaco, le locande, e i saloni da barba, era in questo posto, tra un convento, il municipio, una fonte di acqua riversante, la chiesa Madre e un fiume, che sorgevano alcune abitazioni eleganti, in uno di questi palazzi, che aveva all’interno un cortile e un pozzo, abitava la famiglia Scavotto.
Nel 1730 è ultimata la costruzione della nuova Chiesa Madre dedicata a San Giovanni Battista che è sede inoltre di Vicariato e di Arcipretura.
Nel 1812 con l’abolizione dei diritti feudali Bisacquino passa sotto il diretto controllo del governo Borbonico per il secolare mentre un Vicario Foraneo continua a curare l’aspetto spirituale in rappresentanza dell’Arcivescovo; la Forania con sede a Bisacquino comprendeva i seguenti paesi: Bisacquino, Contessa Entellina[3], Chiusa Sclafani, Giuliana, Campofiorito e San Carlo.
Nel 1855 si realizza la strada di collegamento di Bisacquino con Palermo, che fino a quel tempo si elevava tra sentieri in forte pendenza e sassosi.
Nel periodo in cui vissero i nonni del Decano Scavotto, in un ambiente avvinto alla Sicilia rurale, la vita cittadina si sgrovigliava tra un migliaio di fabbricati. Gli abitanti del luogo erano circa seimila, solo poche famiglie erano facoltose, la gran parte invece vivevano in condizioni misere. Le attività principali erano l’artigianato e l’agricoltura. Le giornate iniziavano molto presto, si pranzava verso mezzogiorno e si andava a dormire al tramonto; alle manifestazioni religiose partecipavano quasi tutti gli abitanti del luogo, generalmente, le funzioni religiose, finivano prima del tramonto, perché di notte il paese era sempre al buio; c’era molto freddo d’inverno, per alcuni mesi l’anno il paese, quasi di continuo, era coperto di neve.

Venerabile Decano Giovanni Bacile


1.2 LA CHIESA DEL SUO TEMPO
Nel 1846 morì Bartolomeo Alberto Cappellari che come Sommo Pontefice aveva preso il nome di Gregorio XVI, per la cattedra di San Pietro fu scelto il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti che assunse il nome di Pio IX. Con lui si ebbe la promulgazione del dogma dell’infallibilità del Papa proclamato dal Concilio Vaticano I. Alla morte di quest’ultimo, il 20 febbraio del 1878, successe Gioacchino Vincenzo Raffaele Luigi Pecci col nome di Leone XIII, che morì il 20 luglio del 1903. Leone XIII, con l’enciclica Rerum Novarum del 1891, diede inizio ad una dottrina sociale della Chiesa.
Alcuni sacerdoti già, come Bosco, Cottolengo e Cusmano[4], nella Chiesa, avevano gettato le basi per questa dottrina, prova ne è quanto esprime il Decano Don Calogero Di Vincenti sul periodo: 
      Don Bosco non era mai stato in un luogo di pena. Quando entrò e vide molti giovani che se ne stavano inoperosi a espiare colpe delle quali non erano interamente responsabili, ebbe una rivolta istintiva. Pensava che non fosse giusto tutto quello e che i legislatori nella loro scienza non sapevano che la giustizia è una crudeltà quando non è animata dallo spirito cristiano. Sentì nell’animo uno strazio come se quella gioventù gli appartenesse e desiderò di cancellare quell’atto di disonore che pendeva su di essa. Pensò e ripensò che forse tutti quei giovani se avessero trovato qualche cuore amico accanto che li avesse istruiti amorevolmente non avrebbero fatto quella fine. Visitando gli ospedali ciò che più lo impressionò furono le malattie della gioventù, ma il suo cuore ebbe veri spasimi di dolore nel vedere centinaia e centinaia di ragazzi nelle vie della città dalle facce avvizzite, che vivevano di piccoli furti e che erano in potenza gli anarchici del prossimo domani[5].

Nell’Arcidiocesi di Monreale nel periodo che va dal 1813 al 1897 successero quattro Arcivescovi, il dotto Mons. Domenico Benedetto Balsamo, Mons. Benedetto D’acquisto che venne, tra l’altro, arrestato perché si oppose all’espropriazione dei beni ecclesiastici, Mons. Giuseppe Papardi e Mons. Domenico Gaspare Lancia di Brolo[6] che affrontarono con cautela il difficile momento che la chiesa Cattolica attraversava.

Decano Pasquale Scavotto

1.3 PROFILO BIOGRAFICO[7]
Giovanni Scavotto sortiva i natali nel paese di Bisacquino, il 5 gennaio dell’anno 1813, sullo scenario del suolo passato dai genitori don[8] Filippo e donna Antonina Dolce[9]; entrava nella chiesa Cattolica, per mezzo del battesimo, la mattina successiva, impartito, nella chiesa Madre di Bisacquino[10] dal cugino Don Giuseppe Scavotto; per padrini aveva gli zii, don Ignazio Scavotto e donna Maria Rosa Scavotto, fratello e sorella del padre; gli fu scelto il nome di Giovanni per riguardo al nonno materno.
I genitori gente agiata, che vivevano nel quartiere della piazza[11], cui non era ignoto il sacrosanto lavoro che grava sui padri di famiglia per l’educazione religiosa e civile della propria prole, assai di buona ora cominciarono a instillare quei semi di pietà che a suo tempo dovevano produrre gli abbondanti frutti su di lui e sugli altri figli: Giuseppe, Rosalia, Antonino e Antonino Francesco.
Gravissimi dispiaceri venivano ad amareggiarlo fin dal principio della vita, difatti il 23 ottobre del 1819 perdeva la madre, che veniva sepolta nella chiesa del Carmine a Bisacquino; era figlia di don Giovanni e donna Domenica Genovese.
Egli il 9 maggio dell’anno 1823 nella chiesa Madre di Bisacquino riceveva il sacramento della Cresima impartito dall’Arcivescovo di Monreale Mons. Domenico Benedetto Balsamo, padrino era don Carlo Noto[12]; frequentava la scuola primaria a Bisacquino dai padri Carmelitani, apprendeva qui i primi rudimenti della teologia quando all’età di undici anni approdava al seminario dei chierici rossi di Monreale per gli studi superiori.
Il padre, pur avendo già un altro figlio in seminario, non gli condizionava un si nobile sentimento, anzi lodava pure ben volentieri di vederlo come forza del Signore.
 In seminario era ammesso dall’Arcivescovo Balsamo[13] e dal rettore Caruso, la sua modestia ammirevole, il suo linguaggio retto e ispirato ai principi della religione cattolica, un carattere determinato lo rendevano bene accetto ai superiori. Egli che aveva grande lodo di ricchezza della vita ecclesiastica nella quale il Signore aveva fatto piovere per lui le più elette benedizioni, per nulla voglioso delle attrattive della vita mondana amava meglio di imitare Gesù Cristo nella sua vita nascente e perciò preferiva di rimanere fra i blu silenzi della vita del seminario, scegliendo Iddio, come fonte della sua eredità. I superiori, infatti, che vedevano come le virtù progredivano celermente in lui ne apprezzavano l’ordine e la dedizione agli studi; parimenti egli faceva sue le parole di San Paolo nella lettera ai Filippesi:
       Tutte le cose vere, tutte le cose oneste, tutte le cose giuste, tutte le cose pure, tutte le cose amabili, tutte le cose di buona fama, tutte le cose virtuose e degne di lode devono formare l’oggetto dei vostri pensieri[14].

In data 7 marzo 1829 il fratello maggiore Giuseppe Scavotto si ordinava sacerdote nel duomo di Monreale.
In data 10 febbraio 1836 Giovanni Scavotto conseguiva il ministero di accolito e in data 14 settembre 1836 quello dell’ordine di diacono, così, all’età di ventiquattro anni, in data 8 febbraio 1837, riceveva l’ordinazione sacerdotale dall’arcivescovo Mons. Domenico Benedetto Balsamo nel duomo di Monreale; era assegnato a Bisacquino come collaboratore della chiesa Madre, otto giorni dopo compiva il suo ingresso nel paese natio, era festeggiato dalla popolazione. Nella chiesa Madre il Decano Mancuso teneva il discorso di presentazione, poi lui celebrava la sua “prima messa”.
Il giorno 8 settembre del 1837 in un lazzaretto in contrada San Marco nei pressi di Bisacquino amministrò l’estrema unzione al padre contagiato dal colera,; non molto tempo dopo morì anche lo zio prete Francesco, fratello del padre, che lasciò i terreni di sua proprietà ai figli di Ignazio mentre la casa ai figli di Filippo.
Conseguiva la laurea in Teologia nella Regia Università degli Studi di Palermo il giorno 9 di aprile del 1842.
Il 15 aprile del 1847 moriva, a soli trentotto anni, la sorella Rosalia Scavotto, che non si era sposata per assistere i due fratelli sacerdoti; alcuni anni dopo moriva anche il fratello medico Antonino Francesco.
In quegli anni[15] Egli superava il concorso per far parte dell’insigne Collegiata della chiesa Madre di Bisacquino[16], ne era prima mansionario e poi canonico; in seguito era nominato cappellano della Chiesa di San Nicolò.
Nel 1866[17] a seguito della legge espropriativa dei beni ecclesiastici questa chiesa con l’annessa Badia[18] passavano al Comune di Bisacquino, così come i conventi del Carmine, di Santa Caterina e dei Cappuccini.
Il 14 aprile del 1873 moriva il Decano Giardina Francesco ed era nominato Economo dell’Arcipretura San Giovanni Battista il Canonico Stanislao Mancuso.
L’Arcivescovo Mons. Giuseppe Papardi, dietro consiglio del Vicario Generale Giuseppe Vaglica, di Mons. Salvatore Milazzo[19] e del fratello Can. Gregorio Milazzo, scelse lui come Arciprete di Bisacquino, per cui non si bandì il concorso per Decano[20].
Il 19 settembre del 1876, Giovanni Scavotto, era nominato Decano Arciprete[21] nonché Vicario Foraneo di Bisacquino, era il primo Decano non di nomina regia ma pontificia per l’abolizione dei Legati[22].
L’Arcivescovo[23], non si sa per quale motivo nei riguardi, volle che l’investitura avvenisse per la festa principale del paese, così, il 3 maggio del 1877 si celebrava nella chiesa Madre di Bisacquino la cerimonia di nomina[24].
I suoi sessantaquattro anni di età, i capelli grigi e quegli occhi celesti stanchi fecero presagire che sarebbe stato un Decano di transizione, ma non fu così.
Mons. Giovanni Bacile e lo storico locale Can. Don Bernardo Lucia, dissero di lui che affrontava il suo incarico da uomo aristocratico, dotto, caritatevole, autoritario, energico[25], centrando sulla sua persona l’immagine della Chiesa locale, valorizzando la figura del Decano quale capo del paese[26].
Il Decano Giovanni Scavotto restava a vivere nella casa paterna, nel quartiere della piazza[27], con il fratello sacerdote Giuseppe, un domestico dal nome Salvatore e una donna di servizio dal nome Maria: il domestico lo accompagnava in ogni luogo, in uniforme, come un maggiordomo; la donna di servizio, accudiva a tutti i lavori di casa.
Fu un grande oratore, dal pulpito della chiesa Madre le sue infiammanti omelie coinvolgevano, era il pastore che parlava alle sue pecorelle.
Nel periodo della sua attività parrocchiale tre fatti lo distinsero, che svilupperemo nei capitoli successivi, la carità verso i poveri, l’attaccamento al suo paese e la volontà di difensore accanito della Chiesa Cattolica, anche per questo, nella chiesa Madre all’altare di San Pietro, un lumino, senza interruzione, doveva rimanere acceso in perpetuo, a indicare la tradizione del messaggio evangelico unificato nella figura del Santo Padre.
Il 20 agosto del 1877, benediva dietro autorizzazione dell’Arcivescovo, il Camposanto di Bisacquino, attiguo alla chiesa della Maddalena, perché cimitero cristiano compreso nella citata chiesa, convincendo la popolazione locale che una delle cause dell’epidemia del colera era dovuta alla sepoltura nell’abitato dei defunti. 
Il 4 settembre del 1877 moriva, il fratello prete Giuseppe Scavotto, che era stato tra i fondatori della Congregazione del SS. Sacramento[28].
Il 14 aprile del 1878, pose un quadro, dipinto ad olio, del Decano Francesco Giardina, che era stato suo predecessore, nella sacrestia della Chiesa Madre.
Il giorno 8 luglio del 1878 istituiva una commissione per l’acquisto degli arredi sacri appartenuti alla badia di San Nicolò, nominando dei canonici giovani: Don Costantino Margiotta, Don Vincenzo Pizzitola, Don Vincenzo Faccidomo e Don Salvatore Ragusa rettore della chiesa[29].
In data 1 gennaio 1880 istituiva nella chiesa Madre tre giorni di orazione verso il SS. Sacramento che duravano l’intera giornata; tradizione che continua tuttora ogni inizio d’anno.

Il 12 agosto 1880 nacque a Bisacquino da Giuseppe Bacile e Maddalena Pizzitola il servo di Dio Giovanni Bacile. A Bisacquino compì l’istruzione elementare e il ginnasio alla scuola dei Can. D’Armata e Ceravolo; di famiglia povera, aiutato economicamente oltre che dalla sua famiglia anche da un ente ecclesiastico locale entrò in seminario il 15 novembre del 1896.

Nel 1886 con il denaro donato dall’organista della chiesa Madre Sig. Gaspare Campisi, si realizzava una cappella in onore alla Madonna di Trapani, in contrada San Ciro opera dell’artista locale Alberto Guarino.
Sempre, in questo periodo, furono adornate di stucchi la chiesa di San Vito, la chiesa di San Francesco di Paola, la chiesa del Rosario e la cappella dell’Addolorata nella Chiesa Madre.
Nel 1889 per rendere più belle le funzioni nella chiesa Madre furono apportare delle innovazioni all’organo esistente secondo il metodo Giorgianni[30], inoltre nella sacrestia della stessa chiesa era collocato un imponente e splendido stipo per la posa degli indumenti sacri[31], costruito dall’ebanista bisacquinese Bernardo Sardegna.
L’umanità degli anziani che ha come caratteristiche l’età, la prudenza, l’esperienza, la maturità intellettiva e affettiva, la responsabilità pastorale e molto spesso sociale caratterizzavano gli ultimi anni della sua vita[32].
Il 29 ottobre del 1889 su suo impulso era nominato cappellano sacramentale Don Giuseppe D’Armata, persona colta ma con gravi problemi cardiaci, che moriva a soli quarantacinque anni d’età[33].
Sempre in quel periodo per autorizzazione dell’Arcidiocesi poteva portare lo zucchetto nero come un Vescovo durante la celebrazione della messa.
Nel 1892 fu collocato un moderno orologio in un torrione accanto al fronte esterno della Chiesa Madre, opera degli artigiani locali Scibetta. 
Nel 1893 nasceva a Bisacquino il Fascio dei Lavoratori, movimento di contadini capeggiato in paese da Nunzio Giaimo e Vito Cascioferro. I contadini rivendicavano l’esproprio delle terre appartenenti alla borghesia locale, alcuni preti locali erano insultati dai socialisti[34].
Il 21 giugno del 1893 moriva il fratello medico Antonino.

Nel 1894 nasceva in paese l’opera pia “Boccone del Povero”, nella chiesa di Santa Caterina, così scrive Maria Teresa Falzone:

      Ma l’opera era virtualmente presente in paese fin dal 1887, quando il Cusmano, ospitando nei suoi istituti di Palermo alcuni poveri, anziani e piccoli ciechi di Bisacquino e di Corleone, dichiarava di attendere tra i Bocconisti, un buon sacerdote da Bisacquino e buone speranze per altri frati; si trattava del Sac. Giuseppe Noto; rimase però solo una speranza. Nello stesso anno dal paese venne la domanda di fondazione di un istituto di mendicità, diretto dalle Serve dei Poveri. Seguì un carteggio e altre trattative tra il Cusmano, le autorità civili ed ecclesiali di Bisacquino e degli altri paesi vicini, mentre frati bocconisti vi si recarono per la questua[35].
Agli inizi del 1897 sicuramente le sue condizioni di salute non erano più buone, si evince da un atto del 25 marzo del 1897, nel quale a presiedere una riunione del Capitolo è il tesoriere che è la seconda dignità[36].
Il 18 maggio del 1897 nasceva nella sua parrocchia, perché figlio di Bisacquinesi, il noto regista Frank Capra che era battezzato lo stesso giorno nella Chiesa Madre di Bisacquino. Abitava in paese sino all’età di sei anni poi emigrava con la famiglia negli Stati Uniti.  Fu autore di film come “La vita è meravigliosa”, “E’ arrivata la felicità”, “Mr. Smith va a Washington”, “Orizonte perduto”, “Angeli con la pistola, e “Accadde una notte”, Frank Capra si descriveva così:

   I miei segreti sono la religiosità e la capacità di essere vicino alla gente. Se racconti storie nelle quali il pubblico si identifica, allora l’attore diventa una persona normale e si compie la magia del cinema[37].

L’11 giugno del 1897 il Decano Giovanni Scavotto scriveva all’Arcivescovo di Monreale questa lettera:

      Le arguzie conversazioni di questa chiesa parrocchiale sempre crescenti; la mia età, che vicina alla metà dell’anno ottantaquattro, mi ha svigorito il corpo e la mente; ed un morbo asmatico con tosse frequente, che giorno e notte mi travaglia il petto e lo stomaco e mi priva non solamente del sonno, ma anche della libertà di uscir fuori di casa, ove l’aria  umida o piccola è ostile all’espurgo del petto, mi provocano ad iniziare il discarico dei miei oneri colla totale dimissione dell’anime che impone maggior responsabilità. Pertanto con perfetta osservanza umilio all’Ecc.ma e R.ma la presente mia rinunzia di questo beneficio Curato pregando di accettarla con qualche sollecitudine, e di provvedere col conferimento di detto beneficio ad altro sacerdote. Fiducioso nella degnazione dell’ecc.R.ma implorando col bacio del sacro anello la pastorale benedizione per me e questo popolo, mi confirmo. Umilmo e fermo servo.

Il 25 giugno del 1897 l’Arcivescovo di Monreale Mons. Gaspare Lancia di Brolo gli rispondeva:

      Rev.mo Sig. Decano – con grave nostro dispiacere abbiamo appreso, della sua riverita dell’11 corrente, l’infermità da cui la S.V. è travagliata, e facciamo voti a che presto ricuperi la sanità pel bene ancora di codesti fedeli. Essendo anche nostro desiderio che la S.V. si risparmi possibilmente dalle sollecitudini della cura, piuttosto che aderire alla sua rinunzia che per soverchia delicatezza la S.V. ci ha voluto rassegnare, La invitiamo a proporci un soggetto che possa coadiuvarla e degnamente rappresentarla nel disimpegno dell’ufficio parrocchiale; poiché sarebbe Nostra intenzione, se non vi incontri difficoltà, deputare a coadiutore della S.V. nella carica di Vicario Foraneo il Rev. Can. Tesoriere Don Costantino Margiotta col titolo di ProVicario Foraneo. In attesa di suo riverito riscontro la benediciamo nel Signore[38].

La sera del 26 giugno del 1897, nella sua stanza da letto, dove un quadro di San Nicolò e un altro della Madonna di Pietralunga vi erano posti, fra le lacrime di quanti lo conoscevano, la sua Anima saliva verso il cielo.
La notizia di quel triste ego si diffondeva nel paese colla rapidità del baleno. Si che ogni ordine di cittadini ne fu commosso: i sacerdoti perché perdettero il modello della virtù; i virtuosi perché perdettero il più valido cooperatore nel bene; i poveri infine piansero perché perdettero il loro padre amatissimo.
Terminava con lui la famiglia Scavotto perché non vi erano eredi. 
Il 27 giugno del 1897 alle ore 9,00 il Can. Costantino Margiotta con telegramma postale n. 837 così informava l’Arcivescovo di Monreale Mons. Gaspare Lancia di Brolo:

   Ier sera munito Sacramenti moriva Decano Scavotto aspettanti suoi provvedimenti parrocchia[39].

Fu seppellito nella nuda terra, senza alcuna iscrizione per sua scelta, nel cimitero della chiesa della Maddalena, la popolazione che partecipò in maniera rilevante[40], dispose che fosse seppellito all’ingresso del Camposanto al primo posto[41].
Dopo di lui Bisacquino ha avuto numerosi e colti sacerdoti, tutti si sono contraddistinti come dei buoni sacerdoti e per il rispetto nei confronti degli indigenti.
Mons. Salvatore Pizzitola[42], in seguito, scrisse queste parole nelle quali possiamo racchiudere tutto il clero locale:
      Io mi sento in comunione con i miliardi di uomini che vissero in passato, con i miliardi di uomini di oggi, e con i miliardi di uomini del futuro.



1.4 LA FAMIGLIA SCAVOTTO
Trattandosi di una famiglia che ha vissuto più di centocinquanta anni fa e mancando ormai testimoni, è stato un lavoro difficoltoso il poterla ricostruire, ho dovuto fare delle ricerche in diversi archivi e in alcune biblioteche.
Nello stemma della famiglia Scavotto all’interno di un cerchio si trova uno scudo diviso in due parti: in un lato si trova in alto un Angelo che veglia su di un castello, che ha una torre grande e poi quattro torri più piccole, nell’altro lato una croce redenta con tre stelle e due ramoscelli uno di ulivo e uno di pino.
Del nonno Giuseppe Scavotto[43] si sa che aveva due fratelli sacerdoti Vito e Domenico, sposò Pellegrina Caterina Carlino, quest’ultima apparteneva a una famiglia nobile, da cui ricevette in eredità il feudo di Tarucco. Dal loro matrimonio nacquero quattro figli Ignazio, Francesco, Maria Teresa e Filippo. Ignazio Scavotto, il primogenito, che fu suo padrino, esercitò la professione di medico e sposò Rosa Consiglio, anch’essa appartenente a una famiglia benestante, vissero nel quartiere del Carmine in una grande casa. Ebbero cinque figli Luigi, Giuseppe, Pasquale, Gioacchina e Francesco; Ignazio Scavotto morì il 26 ottobre del 1825. Maria Rosa Scavotto, sua madrina di battesimo, fu suora dell’Ordine di San Benedetto nel monastero di San Nicolò a Bisacquino, vi entrò con una dote, per questo ebbe il titolo di Signora, morì il 2 aprile del 1834. Francesco Scavotto, si ordinò prete e fu in seguito canonico del Capitolo della chiesa Madre di Bisacquino. Alla sua morte lasciò la sua casa ai figli di Filippo e i suoi terreni ai figli di Ignazio. Filippo Scavotto, sposò Antonina Dolce ed ebbero cinque figli: Giuseppe, Rosalia, Giovanni, Antonino e Antonino Francesco.
Dopo la morte di Ignazio e Filippo, una causa fu intentata in data 12 maggio 1845 contro i loro figli, dalla Commenda della Magione nella persona di Marchesini Ugo, per dei possedimenti in contrada Tarucco; per difendersi la famiglia Scavotto scelse l’Avv. Giuseppe Nicolò Pipitone; la causa finì in favore del sacerdote Giovanni Scavotto e dei suoi familiari è grazie a quella sentenza che fece diritto le tasse, furono diminuite nel Corleonese. 
Per quanto riguarda i figli di Ignazio cugini del Padre Decano, Giuseppe Scavotto prese l’ordine sacerdotale ed ebbe in seguito il titolo di canonico Ciantro nel Capitolo locale, colpito da paralisi morì il 30 gennaio del 1859[44]. Gioacchina Scavotto morì in giovane età il 5 ottobre del 1826. Pasquale Scavotto[45] nel 1802 si ordinò sacerdote e il 20 giugno del 1847, a seguito della morte del Decano Don Gaetano Giaccone, fu nominato Decano – Arciprete di Bisacquino; morì all’età di settant’anni il 31 maggio del 1850[46]. Luigi Scavotto, di professione medico, il 30 dicembre del 1827, sposò donna Fiorenza Giuseppa[47], anche lei appartenente a una famiglia benestante; da questo matrimonio nacque un solo figlio dal nome Ignazio che morì ad appena tre anni il 18 giugno del 1831. Luigi Scavotto visse anni sessantadue, morì l’8 maggio del 1857, assieme ai fratelli fondò un ospedale a Bisacquino[48]. Francesco Scavotto si ordinò frate nella Chiesa del Carmine a Bisacquino e da Carmelitano, facendo voto di povertà, prese il nome di Emanuele. Dal 1862 al 1866, anno di soppressione delle corporazioni ecclesiastiche fu padre provinciale. Morì il 31 maggio del 1883.
Terminava con Emanuele la famiglia di Ignazio e Rosa Consiglio perché non vi furono eredi. Emanuele Scavotto, nel rispetto delle ultime volontà dei fratelli, lasciò i suoi beni all’ospedale locale. Il 31 maggio del 1889, fu svolta al Cimitero di Bisacquino una manifestazione in suo onore da parte dei Commissari Regi, l’ospedale civico fu chiamato Scavotto e una piazza del paese prese il nome di Scavotto[49].
La tomba del padre Emanuele Scavotto e della cognata Fiorenza Giuseppa è ancora esistente nel cimitero di Bisacquino, dalla soprintendenza è stata dichiarato bene artistico.
Il 18 luglio del 1883 il Decano Giovanni Scavotto si preoccupò di far registrare il testamento del cugino Emanuele, incaricando suor Leordina Rumore, ex moniale del Monastero di San Nicolò di Bisacquino; pertanto la Congregazione della Carità acquisiva, per l’ospedale locale da loro fondato, l’eredità dei fratelli Scavotto Luigi, Giuseppe e Francesco, quantificata in lire ottantaseimila trecento trentanove e centesimi quarantasette, disposta con i testamenti 24 gennaio 1859, 25 giugno 1882 e 18 luglio 1883.
Per quanto riguarda i figli di Filippo fratelli del padre decano Giovanni Scavotto, Giuseppe Scavotto ricevette l’ordinazione sacerdotale in data 7 marzo 1829 e fu tra i fondatori della Congregazione del SS. Sacramento nel 1847. Fu canonico del capitolo di Bisacquino. Se ne andò il 4 settembre del 1877, giorno in cui a Bisacquino si festeggia Santa Rosalia. Rosalia Scavotto per assistere i due fratelli sacerdoti, com’era allora prassi, non si sposò, morì, all’incirca l’età di quarant’anni il 15 aprile del 1847. Scavotto Antonino, di professione medico, in data 6 giugno 1851, all’età di trentacinque anni, sposò Tamburello Bernarda di anni trentadue[50], alla morte di quest’ultima, in età avanzata sposò Naro Rosalia; non ebbe figli. Morì il 21 giugno del 1893. 
Il Decano Giovanni Scavotto, morì, quindi, senza che vi fossero eredi, lasciò con testamento i suoi terreni in contrada Tarucco, estesi circa trenta ettari, alla Matrice di Bisacquino; della sua grande casa[51] compresa la mobilia volle che restasse, finché erano in vita ai suoi domestici Salvatore e Maria, i quali non erano sposati, dopo la loro morte alla parrocchia della Matrice di Bisacquino; Salvatore, dopo pochi anni si ammalò e morì; invece Maria visse a lungo per molti anni, usufruttuaria di tutta la grande casa del Decano Scavotto, a loro, che erano analfabeti, lasciò una rendita in denaro per vivere dignitosamente. Oggi, i locali fanno parte del convento della “Madonna delle Grazie”, affidato alle Suore dell’Ordine di Madre Teresa Cortimiglia, si trovano al secondo piano dell’edificio, è, inoltre, la sede della “Nuova Opera Pia Madonna delle Grazie”, per dare assistenza alle persone sole del paese. Nel salone principale dove vivono queste persone che hanno bisogno di assistenza, è stato collocato un dipinto a olio del Decano Giovanni Scavotto, opera commissionata, alcuni anni dopo la sua morte dalle suore Teresiane, per l’opera caritativa che lui svolse nel corso della sua vita nei confronti di questa Istituzione.
il Decano Mons. Giovanni Bacile in una ricorrenza del Decano Giovanni Scavotto scrisse:

      La famiglia Scavotto meriterebbe un grandioso monumento nel più bel punto di Bisacquino per il grande bene che in diversi tempi vi ha fatto[52].





Decano Calogero Di Vincenti



Capitolo 2
IL SACERDOTE
2.1 FORMAZIONE
Varcando il portale dell’Istituto di Scienze Religiose “Don Ignazio Sgarlata” di Monreale, già sede del seminario, trovandosi di fronte ad un’autorevole ingresso, ci si rende conto dell’antichità del palazzo.
Quel palazzo ai tempi del Decano Giovanni Scavotto era stato acquistato dall’Arcidiocesi di Monreale dal nobile Alfredo Ventosa, per dare ancora più prestigio al seminario di Monreale che era definito “l’Atene del sud”.
I giovani seminaristi però tra quelle mura divenivano, inconsapevolmente, depositari del sapere che quella scuola aveva prodotto nel corso dei secoli e potevano contare su di un colto Arcivescovo, Mons. Domenico Benedetto Balsamo, responsabile della diocesi dal 23 settembre del 1816 al 6 aprile del 1844. 
Tra i maestri del seminario avevano fama di sommi il Guardì, il Zerbo, il Bruno, Giuseppe Saitta da Bronte, poi Vescovo di Patti dal 1832 e Diego Planeta da Sambuca, poi Vescovo di Brindisi dal 1841, rettore del seminario era Mons. Giuseppe Caruso, scrisse di lui il Millunzi:

      Costui assommò nella sua persona tutto il governo del seminario. Negli istituti si divide a più persone il lavoro della direzione, perché una generalmente parlando non è capace di sostenerlo tutto, ma il Caruso era capace[53].

La cultura del Decano Giovanni Scavotto, si forma in questo contesto, in un periodo in cui la chiesa Cattolica deve difendersi da attacchi provenienti da forze esterne, che professavano la c.d. Teoria della catastrofe, per cui il cattolicesimo con l’espropriazione dei beni ecclesiastici prima e con la caduta del potere temporale del Sommo Pontefice dopo, era per loro ormai al collasso.

La chiesa Cattolica, però, era attraversata da una ventata di nuovo da sacerdoti sociali come Giovanni Bosco, infatti, a proposito su quell’epoca, si evince quanto segue:

      I termini del tema che mi sono proposto di trattare sono tra i più attraenti e tra i più splendenti di bellezza. Da una parte un Santo che ha riempito di se, del suo sorriso e delle sue opere educative tutto un secolo e dall’altra parte ciò che di più bello e di più entusiasmante ci presenta l’umanità di tutti i tempi e di tutti i luoghi: la gioventù. Quella gioventù che ha in se i caratteri per un maggior avvicinamento alla fonte creativa della divinità[54].

Per tutto questo Giovanni Scavotto, osservando il suo tempo, postulava, quello che doveva essere, il suo apostolato:

      Fra queste ruine s’innalzano magnifici templi ed altari, offrendo senza pericolo al vero Dio i loro omaggi; le sacre cerimonie acquistano un nuovo splendore: è la religion di Cristo con in mano la Croce, trofeo delle sue gloriose vittorie fra gli applausi, i tributi, e le feste si asside sul trono[55].

Giovanni Scavotto fu uno dei pochi sacerdoti siciliani, che per il periodo storico che stava attraversando la Sicilia, decise di perfezionare i suoi studi iscrivendosi alla Facoltà Teologica nella Regia Università degli Studi di Palermo, fondata nel 1805, in via Maqueda, nella casa dei PP. Teatini della Catena. In quel posto ebbe la possibilità di conoscere alcune delle persone più importanti dell’epoca, perché oltre a quella Teologica vi erano lì le facoltà, Legale, Medica, Filosofica e Letteraria[56].
Egli conseguiva la laurea in Teologia il giorno 9 di aprile del 1842 come si evince da un documento rilasciato dalla citata Università che ho rinvenuto all’Archivio Diocesano di Monreale[57].

      Certifico io sottoscritto qual Cancelliere della Regia Università degli Studi di Palermo, che avendo riscontrato i registri ove notansi i graduati nella facoltà Teologica ho trovato annotato nell’anno 1842 a 9 aprile D. Giovanni Sac. Scavotto figlio di Filippo di anni 29 del Comune di Bisacquino prov. Di Palermo. Onde in fede del vero ho rilasciato il presente da me firmato, e munito dal suggello di questa Regia Università. – Palermo li 9 aprile 1842[58].

Il Decano Giovanni Scavotto parlava e scriveva correttamente il latino, come si evince dai suoi scritti, dove spesso è usata questa terminologia, fu inoltre, studioso del diritto canonico, si evince dal fatto che nel 1880, chiese al Comune di Bisacquino l’applicazione del diritto ecclesiastico per la giurisdizione del Cimitero.
Dal punto di vista prettamente spirituale dai suoi discorsi si desume un’elevata formazione intellettuale, era un buon oratore come si può notare in alcuni passi di una delle sue omelie su San Nicolò da Mira:
      Il quarto secolo di nostra redenzione avea già cominciato il suo corso, la Chiesa di Cristo non si godea ancor quiete e pace che l’idolatria e l’eresia, queste formidabili nemiche, congiurate a suo danno, le facean continuamente guerra. Essa sentiva lacerarsi le viscere e con sommo dolore vedeva scorrere a vivi il sangue innocente dei cari figli che per lei intrepidi affrontavan la morte […].

Il sistema educativo del sacerdote Giovanni Scavotto era il sistema preventivo che gli era offerto dalla tradizione. Le sue idee educative però più che da un sistema, discendevano dalla carità e il successo, la sua opera lo trovava in quelle norme spirituali e religiose che regolavano la sua vita, imperniate nell’ordine e nel rispetto della disciplina gerarchica[59], pietra angolare anche dei suoi successori nella carica di Decano, come si può evincere da un passo di uno scritto del Decano Giovanni Bacile:
      Che cosa è Dio? L’Aleardi fa questa domanda a le stelle e si sente rispondere che Dio è ordine, interroga i fiori e quelli gli dicono che Dio è bellezza, lo vuol sapere da la pupilla dell’innocente e questa gli risponde: amore. Esatte le tre diverse risposte, perché la meravigliosa disposizione de le stelle, la luce che regolarmente ci tramandano, non ostante la loro immensa distanza da noi, il loro movimento senza mai urtarsi, non ostante la loro smisurata grandezza sono ordine magnifico e siccome nessuno può dare quello che non possiede Dio che ha creato le stelle in tanto ordine, deve essere ordine infinito.



2.2 LA GIUSTIZIA DI DIO
Al fine di approfondire il pensiero del Decano Giovanni Scavotto,  mi piace fare riferimento ad una sua omelia dal titolo “La Giustizia di Dio”, riporto alcune sue riflessioni[60]:

      E’ Cristo che parla per togliere a noi ogni vana lusinga di poterci salvare con una giustizia simile a quella degli Scribi e dei Farisei. Poiché questi malamente interpretando il senso delle divine Scritture eran di avviso poter conseguire l’eterna beatitudine promessa da Dio ed amarlo colla sola osservanza dei riti prescritti dalla legge Mosaica nei sacrifici, senza l’obbligo di umiliare innanzi l’Ente Supremo la loro mente, senza sacrificar il loro cuore, in guisa che servivano Dio, pregavano Dio nell’ipocrisia, che si limitava ad una osservanza esterna, come se Dio, che tutto vede, non fosse lo scrutatore dei cuori.

Per quanto sopra il Padre Decano ammonisce la gente del suo tempo, infatti dice:

      Ma oggi il Divin Maestro alzando la sua voce in mezzo a noi ci insegna, che una tal giustizia esterna e di ipocrisia non basta ad acquistare l’eterna beatitudine; poiché essendo Dio il creatore ed il redentore dell’uomo, composto di corpo e di anima essendo questa assai più nobile del corpo terreno e corruttibile, perché creata ad immagine e somiglianza di Dio, che è spirito est, ci comanda di amarlo e servirlo non solo col corpo, ma pure e principalmente colla nostra anima cioè colla nostra mente e col nostro cuore. Poiché Dio essendo conoscenza ed amore sostanzialmente. L’anima nostra essendo stata creata da Dio a sua immagine e somiglianza, Dio non potea dispensarla dal conoscere ed amare il suo Creatore. Invano dunque l’uomo si lusinga, come gli Scribi ed i Farisei di comunicare nella via della eterna salute colla sola esteriore osservanza della divina legge che è come il corpo senza anima. Che giova dunque, o fratelli, il culto che voi prestate a Dio entrando nella Chiesa, recitando preci colla sola bocca, stando genuflessi innanzi il Divin Sacramento, il percorrervi il petto senza dolore e senza proponimento mentre la vostra mente è rivolta alle vanità del mondo, mentre il vostro spirito non s’innalza a Dio; che giova l’esistere all’incruento sacrificio della messa senza sacrificare le vostre passioni? Oh! Allora la vostra giustizia essendo uguale a quella degli Scribi  e dei Farisei, non entrerete nel regno dei Cieli.

Infine, il Decano Giovanni Scavotto, da una spiegazione sul senso della vita con le parole che seguono:

      La legge di Cristo è legge di carità non solo verso Dio ma pure verso il prossimo. Si noi dobbiamo amar noi stessi con vero amore, e l’anima nostra essendo la parte principale di noi perché creata ad immagine di Dio e capace di una eterna pena o di una eterna felicità, noi dobbiamo più del corpo corruttibile amar l’anima nostra meritandole con i nostri pensieri, con i nostri affetti, e colle nostre azioni  la eterna beatitudine; Dio adunque imponendoci il precetto di amare il prossimo come noi stessi, ci comanda di amarlo con quella carità che è viva nel procacciargli non solo il sostentamento della vita naturale per continuare a servire Dio, ma molto più la vita spirituale dell’anima colle nostre preghiere innalzate a Dio, coi nostri insegnamenti e specialmente col nostro buono esempio, affinchè il nostro prossimo agitato da noi possa camminare nella via dell’eterna beatitudine. Non basta adunque alla nostra giustizia l’astenerci dai furti e dagli omicidi mentre in cuore si conserva l’odio verso il nostro prossimo, non basta non violar la donna altrui mentre nel cuore ferve la concupiscenza da Dio proibita, non basta non dar la morte al corpo del nostro fratello mentre se ne uccide l’anima cogli scandali. Amiamo dunque Dio non colla sola esteriore osservanza della sua divina legge ma con tutta la nostra mente e con tutto il nostro cuore. Amiamo il nostro prossimo con quello stesso spirito di carità col quale dobbiamo amare noi stessi; questi due amori vanno talmente tra lor congiunti che l’uno non sussiste senza dell’altro. Noi non possiamo davvero amare Dio, senza amar il nostro prossimo, ne amar il nostro prossimo senza amare Dio: in una parola, dobbiamo amar Dio colla mente e con tutto il cuore, nel nostro prossimo creato ad immagine di Dio e redento dal sangue di Cristo, e dobbiamo amare il nostro prossimo in Dio e per Dio; ed allora noi acquisteremo quella giustizia, che ci rende degni dell’eterna beatitudine.  

2.3 LA DEVOZIONE A SAN NICOLA
Fu forse per sua scelta, avallata dall’Arcivescovo di Monreale Mons. Domenico Benedetto Balsamo e dal Decano Domenico Mancuso che per molto tempo fu cappellano della chiesa di San Nicolò a Bisacquino. Le funzioni religiose principali in questa chiesa si svolgevano il 6 dicembre per la festa di San Nicolò e nel mese di gennaio con l’esposizione del SS. Sacramento per le “quarant’ore circolari.
Questa chiesa, inoltre, in conseguenza del fatto che vi era annessa la badia, era una delle principali di Bisacquino come si evince da un atto del 1864 scritto di proprio pugno da lui:

      Io sottoscritto dichiaro che non potendo in questo volgente anno soddisfare i legati di Messe significatemi alla tabella della Collegiata provvisoriamente ne ho commessa la celebrazione ai tre sacerdoti, cioè al Can.co Filippone n. 30, al Sac.te Nicolosi n. 37 ed al Sac.te Raia n. 38. Costui però di detta cifra dovrà celebrarne n. 30 nella chiesa dello Spedale nei giorni di domenica. Inoltre dichiaro che la celebrazione della Messa di Cappella legate nella Ven.le chiesa di questo Monastero di S. Nicolò è stata pure provvisoriamente commessa da ora al Sac.te Nicolò Saladino. In Bisacquino lì 28 marzo 1864[61].  

Nel 1866 a seguito della legge di espropriazione dei beni ecclesiastici questa chiesa con l’annessa badia passavano al Comune.
Cosi Egli scriveva, parlando del difficile momento che attraversava la chiesa Cattolica:

      Ed alcuni entrando nel chiostro dove la vita diventa immortale a giudicare della pace che regna nella casa del Signore, come anche ogni crescente quivi si da all’acquisto di ogni virtù e non risparmia né sofferenze ne sacrifici affinché raggiunga l’astrale metà[…]. Vengano qui i denigratori del recinto claustrale ne contemplino la vita ne meditino le regole e vediamo se neghino che i chiostri sono ospizio di virtù[62]!

Inoltre paragonava il periodo storico, in cui le chiese venivano saccheggiate da mani sacrileghe a quello delle persecuzioni dei Cristiani, infatti scriveva:

      Ma quivi le avversità della Chiesa di Cristo non ebber fine, Iddio che dal male stesso trae il bene, non permise, che gli imperatori ne evitassero la rovina. Devo io o Signori, qui richiamare la triste memoria di quei tempi di fierezza e di empietà pei principi, per sudditi cristiani di lutto e di pianto, allorquando Massimiano e Diocleziano mossi dallo spirito maligno si provaron di bandi dalla Licia di cristiana religione a darne il luogo alla idolatria? Da quali flutti e venti impetuosi si vide allora la navicella di Pietro agitata? Quali e quanti lupi rapaci si gittaron di forza contro la greggia di Cristo a farne crudele strazio? Le orride prigioni, le gravi catene, i fieri tormenti, la cruda morte eran la pena di Colui che non piegava il ginocchio, o la fronte non chinava dinanzi il segno di nostra salute, i figli di Dio eran costretti a non vedere né l’Altare né il Santuario, di questi tribunali di misericordia, che giustificano coloro, che si accingano: era luogo che Gesù Cristo medesimo oh!

Il giorno 9 di luglio del 1879, il Decano Giovanni Scavotto, dal ricavo del fitto delle sedie della parrocchia e dalle £. 100 assegnate dal Comune acquistava per la chiesa Madre di Bisacquino gli arredi sacri della chiesa di San Nicolò: un baldacchino, un ombrello di seta, delle tovaglie di filo ricamate, amitti di filo, un calice d’argento dorato, un ostensorio d’argento dorato del 1696[63], corporali, purificatoi, stole, un velo di esposizione bianco ricamato in oro, due sopra calici, una cappa rossa con frange di argento, camici, piviali, mozzette, due sedie vescovili, un organo, un pulpito di legno, oggi nella chiesa del Carmine, due statue ed altri arredi[64].




Capitolo 3
IL PASTORE

3.1 NOMINA
Egli era nominato Decano Arciprete e Vicario Foraneo di Bisacquino dall’Arcivescovo Mons. Papardi, in data 19 settembre 1876, era il primo Decano non di nomina regia ma pontificia per l’abolizione dei Legati.
Per approfondire la figura del Decano a Bisacquino, il prof. Nicola Filippone, ne tratteggia le caratteristiche:

   La figura del Decano a Bisacquino è qualcosa di più di un semplice parroco, nella tradizione popolare egli è visto come la più alta autorità del paese[65].

Nel particolare il prof. Totò Contorno evidenzia quanto segue:

      Essere Decano di Bisacquino non è facile. Si può dire che il Decano, del resto non è che un parroco come quello di tante altre parrocchie, ma non credo sia così. Bisacquino ha una tradizione splendida di Decani e la gente stessa dice che u decanu è un capu di paisi e da queste premesse discende una grande responsabilità[66].

L’Arcivescovo di Monreale Mons. Papardi, non si sa il motivo nei suoi confronti, volle che l’investitura avvenisse per la festa principale del paese.
Così il 3 maggio del 1877 si celebrò nella Chiesa Madre di Bisacquino la cerimonia di nomina, come si evince da una lettera di ringraziamento scritta dal Decano Giovanni Scavotto all’Arcivescovo Mons. Papardi[67].
Così tratteggia il Decano Don Calogero Di Vincenti la mattina del tre maggio a Bisacquino:

      La primavera era sbocciata appena da un giorno e l’inverno pareva che volesse ritornare, poi passo il suo dominio, quando dopo una mattinata piovigginosa e piena di freddo, il sole ebbe il suo momento di trionfo,  sbaragliò le nubi e illuminò con la sua luce e il suo tepore delicato ma costante la piazza e le viuzze del dolce paese, attaccato alla sua montagna, che viveva uno dei suoi giorni, di gran festa e di grande attesa.
       Poi suonarono a distesa le campane, tutte le campane di tutti i campanili e chi partì lascio la sua casa. E le strade si animarono, quasi d’improvviso e tutti, avevan il vestito della festa e gli occhi di tutti, splendean di gioia e il senso di un’attesa amorosa dava armonia.

Il tre maggio, rappresentava per i Bisacquinesi, il giorno dell’inizio delle belle giornate, per cui quel giorno si cominciavano a indossare gli abiti estivi, per questo i sarti e i calzolai del luogo si apprestavano a consegnare vestiti e scarpe.
Era un giorno di festa, e i bimbi cominciavano a scendere nelle strade, così, come abitudine tramandata dal tempo, quel giorno a tutti i parenti che incontravano, dicevano “benedica parrino” e ricevevano dei doni in cambio, anche i poveri quel giorno ricevevano dei regali.
La banda musicale per le strade del paese con le sue musiche dava inizio a questa festa paesana
Il tre maggio del 1877, quindi, alla messa capitolare il Can. D. Bacile dopo il giuramento investiva il Can. Giovanni Scavotto con la cappa magna, la stola, un berretto e un anello[68], consegnandogli in ultimo il bacolo, un bastone d’argento, segno del potere sulla città; da quel momento il sacerdote Giovanni Scavotto era il “padre Decano” ed egli si affidava alla Madonna del Balzo.
Ecco il racconto dell’evento tratto da un discorso dal titolo il Pastore alle sue pecorelle:

      Quando parlò l’eletto allora fu un lampeggiare di occhi. A molti le lacrime purificarono il viso. Tutti pensavano alla mamma che non c’era e alla missione che avvolgeva la sua vita. Parlò con entusiasmo e con un cuore come un padre, un fratello, un figlio che torni alla sua casa da lontano e ha molto da dire. Disse di esser di tutti e con tutti di esser di Dio. Disse di esser padre e fratello, medico e pastore, lume e bastone e che un grande amore aveva per parlare ai cuori di chi soffre[69].

Parteciparono a questa funzione molte persone come riporta lo stesso Decano Giovanni Scavotto:

      Grande fu la gioia di tutto un popolo in un col Clero e il Ceto Civile; la Chiesa, la piazza e le strade vicine si boccavano di popolo paesano e straniero venuto a solennizzare il giorno sacro all’inverosimile della S. Croce; immensa era la gioia non per la promozione della mia umile persona ma per l’esecuzione della volontà della gerarchia ecclesiastica[70].

Di seguito partì la processione del Crocifisso, che rappresentava la festa che i Santi fanno a Gesù Crocifisso risorto che entra in Paradiso; i campanili di tutto il paese suonavano a festa intanto che le statue di Santi provenienti dalle Chiese del paese arrivavano in piazza. Nella piazza era il Decano, che dava il via alla processione.
Il Decano Don Calogero Di Vincenti così descrive l’evento:
      Quando il sole, per aver vinto l’inverno e per aver dato gioia a un paese, toccava quasi la cima della grande montagna e con un digradare a grandi tinte di rosso porpora, mostrava tra l’azzurro il suo trionfo, arrivò l’eletto. Fu un sussultare di cuori tra la folla, tutti volean vederlo, toccarlo quasi fosse il Messia, parlare con lui e mentre il suono di una musica cercava di elevarsi nella folla, un batter di mani davan la nota che la grazia riempiva i cuori.
       Passò del tempo punteggiato dal sole prima che dalle parti del paese poté raggiungersi la primavera, e lungo la via le madri indicavan ai piccoli l’eletto e ognuno nel suo cuore, invidiava la madre, che dall’alto dei cieli, vedeva il trionfo del figlio e ognuno allora elevava una preghiera al Signore, affinché volesse chiamare uno dei suoi figli a essere eletto.
       Fu il trionfo della fede quel giorno. Ogni madre vedeva nell’eletto il figlio, ogni vecchio l’appoggio per la sua vecchiaia, ogni uomo maturo il senso della paternità e della legge, i giovani la luce della loro giovinezza, i fanciulli l’uomo della sua felicità.  
Poi il segno del segno del divino scese su chi ascoltava. Le campane avvolsero tutto nella loro armonia e per quel giorno trionfò la gioia dei figli di Dio.




3.2 PARROCO
Riporta il Decano Giovanni Bacile[71], che resse in seguito la parrocchia San. Giovanni Battista di Bisacquino, un famoso brano del Lamartine:[72]
      Chi è il Sacerdote? E’ colui che tutti chiamano col nome dolcissimo di Padre e Padre deve essere davvero, se non vuole venir meno a la sua missione; […] padre con tutti: con i ricchi e specialmente con i poveri, padre con i buoni per farli divenire migliori, con i peccatori che deve accogliere con i modi più dolci per portarli al Padre che sta nei cieli […].
       Chi è il sacerdote? E’ il medico istituito da Gesù perché come Lui guarisca tutte le malattie spirituali, è il pastore che come Lui deve andare in cerca delle pecorelle smarrite per dar loro la pace, è Cristo medesimo […].
      In ciascun paese è un uomo che non ha famiglia, ma appartiene a la famiglia di tutti; un uomo che si invoca come testimonio, come consigliere o come cooperatore in tutti i momenti più solenni della vita; senza del quale né si nasce né si muore, che prende l’uomo a la culla e non lo lascia che alla tomba; un uomo che i fanciulli imparano ad amare, a venerare a seguire; che anche i forestieri chiamano padre; ai piedi del quale vanno i cristiani a deporre i segreti più intimi, le lacrime più ignorate; un uomo che per ufficio è il consolatore di tutte le miserie dell’anima e del corpo, l’intermediario della ricchezza e della miseria, che vede il ricco ed il povero bussare volta a volta alla sua porta […]; un uomo infine che sa tutto, che ha diritto di dir tutto e la parola del quale cade dall’alto sull’intelligenza e sui cuori, con l’autorità di una missione divina: quest’uomo è il Parroco.
Nelle pubbliche vie il Decano Giovanni Scavotto era salutato con la frase “benedica padre Decano” e ogni ceto di persone rispettosamente lo riveriva, Egli rispondeva con la frase “Dio ti benedica”. Il suo aforisma era: Proteggerò questa città dai suoi nemici; - in quel tempo Bisacquino contava quasi diecimila abitanti: il novanta per cento della popolazione era composto da analfabeti, i poveri erano molti dopo la legge sull’espropriazione dei beni ecclesiastici, era molto diffuso il vagabondaggio, di tanto in tanto si susseguivano episodi di colera.
Per lui educare voleva dire tirare fuori da un uomo la sua personalità, voleva dire sprigionarlo dal vago e dall’indifferente e farlo aderire a ciò che per natura gli era conveniente e che di conseguenza rientrava in quella che è la legge eterna di Dio e che mira a fare di un uomo un essere intelligente che spontaneamente e intelligentemente aderisce a un ordine morale, sociale e intellettivo in armonia con tutto il creato[73].
Nella Chiesa locale la situazione non era eccellente: gli amministratori comunali e i nobili volevano depredare quanto ancora non venduto dei beni appartenuti agli enti ecclesiastici soppressi; una legge emanata in quell’anno limitava, l’attività dei parroci; una gestione economica dei beni della parrocchia senza alcun controllo; una sede vacante dal 14 aprile 1873, data di decesso in età avanzata del Decano Giardina Francesco, è gestita da un economo, il Can. Stanislao Mancuso,[74] che non aveva l’autorità di un arciprete.
Egli affrontava questo incarico da uomo aristocratico, dotto, caritatevole, autoritario ed energico,[75] inquadrando nella sua persona la chiesa locale, rivalutando la figura dell’arciprete quale capo del paese[76].

3.3 DISPOSIZIONI
In data 5 maggio 1877 il Decano Giovanni Scavotto scrisse all’Arcivscovo Mons. Papardi, quanto segue:

      Nella settimana entrante mi sarà fatta la consegna delli sacri indumenti ed arredi, ma molti mi dispiace non esistere alcun analitico elenco degli oggetti quattro anni or sono consegnati a Mancuso[77].

L’Arcipretura San Giovanni Battista comprendeva nel suo territorio, sedici chiese, un ospizio, un orfanatrofio e un ospedale gestito con l’ausilio della congregazione della Carità.
Per quanto riguarda la gestione dei beni economici della parrocchia, furono prescritte dal Capitolo da lui presieduto le sotto elencate regole ai rettori delle sedici chiese:
      I sacri arredi si conservino nella Sacristia delle Chiese a cui appartengono in appositi armadi e giammai nelle case particolari. Che se per circostanze speciali non si crederà conveniente conservarle nelle rispettive Chiese, si conservino allora nella Chiesa Madre in apposito locale a ciò destinato sotto la sorveglianza dell’Arciprete Decano che destinerà alla loro custodia un Ecclesiastico di fiducia.
      Tutti i titoli e le scritture riguardanti le Chiese e i loro legati come le autentiche delle Reliquie devono conservarsi nelle rispettive Sacrestie in un armadio a ciò destinato sotto la responsabilità del Cappellano; né devono uscirsi senza una ricevuta in iscritto della parte prendente, e giammai nelle case particolari; mentre una triste esperienza ci ha dimostrato che la trascuranza di questa legge è stata la causa principale della perdita della maggior parte dei legati e delle rendite delle Chiese.
Fu disposto che tutte le spese e gli introiti dovevano essere documentati e trasmesse alla chiesa Madre, qui, con l’avallo di una Deputazione di sacerdoti si procedeva a inventari che erano copiati in esatti registri e archiviati nella sacrestia della chiesa Madre.[78].

3.4 ATTIVITA’ PASTORALI
I sacerdoti che espletavano la loro attività pastorale all’interno della parrocchia erano più di trenta, per cui il Decano Scavotto poté scegliersi validi collaboratori.
Nel suo incarico di pastore, in molti casi, Egli usava diplomazia, ma successe pure, che per determinati fatti entrò in conflitto con i cattivi del tempo[79], facendo valere la sua aristocrazia.
Il Decano Giovanni Scavotto e il fratello sacerdote Giuseppe furono battezzati il 6 gennaio, in anni diversi, che è la festa dell’Epifania. Questo forse fu un segno del destino, infatti, quel giorno si svolge a Bisacquino la “vestizione del bambino povero”. La Congregazione del SS. Sacramento che cura questa festa, sceglie tra gli abitanti, quello che può essere il bambino più povero del paese, che identifica con Gesù Bambino. Durante la celebrazione della Messa, a questo bambino, sono donati degli abiti nuovi e il ricavo di una raccolta fatta nel paese; al bambino, è lasciato nudo un solo piede, che il Decano, in rappresentanza della città, bacia come se fosse Gesù Bambino. Al termine della messa questo bambino distribuisce, nel sagrato della chiesa Madre, in segno di riconoscenza delle noccioline.
Il Decano Giovanni Scavotto, nelle pubbliche vie era fermato dai poveri, i quali sapevano che avrebbero ricevuto l’elemosina, inoltre, istituiva delle rendite per permettere anche ai ceti più deboli di realizzare la loro vocazione religiosa, un caso è quello di un’orfanella che pronunciò i voti, Suor Maria Giovanna Rotolo, che volle chiamarsi Giovanna in attestazione di gratitudine al suo benefattore[80].
Egli aveva particolare attenzione per i bimbi del locale orfanotrofio[81] comprandogli dei regali e insegnando loro a confidare in San Nicolò. Forse si devono a lui le tradizioni che ancora permangono a Bisacquino dei doni che porta ai bimbi San Nicola e della reverenza verso le coccinelle che a Bisacquino sono chiamate San Nicola.
Questi bambini del locale orfanotrofio, che erano tanti, non avevano di che vivere, perché erano tempi poveri, il Decano Scavotto, li faceva partecipare in processione ai funerali delle famiglie benestanti, i maschi erano vestiti con divise celesti, le femmine con divise rosa, eseguivano dei canti religiosi, così perché, quel giorno ricevevano delle elemosine. Inoltre, faceva partecipare questi orfanelli, vestiti allo stesso modo, alla processione del Corpus Domini, dove a turno essi portavano un cesto pieno di petali di rose.
A tal riguardo, ci piace, questo riferimento su quanto scrive il Decano Don Calogero Di Vincenti su San Giovanni Bosco, che possiamo dire anche per il Decano Giovanni Scavotto:

      Ma ciò che determinò la sua vocazione fu la visita alla piccola casa della Provvidenza. Venne guidato nella visita dal Santo Fondatore Don Giuseppe Cottolengo. Alla vista di tanti giovani ammalati si contristò ancora una volta e forse pianse. Quando il Cottolengo stava per concedarlo, stringendo tra le sue dita le maniche della veste di Don Bosco, con voce ispirata gli disse: “Ma voi avete una veste di panno troppo sottile e leggera, procuratevene una che sia molto più forte e molto più consistente, perché i giovanetti possano attaccarvisi senza stracciarla. Verrà un giorno in cui vi sarà strappata da molta gente”[…]. Frutto della sua opera furono e sono i numerosi collegi – convitti che aprì e le scuole professionali a cui diede vita per dare i nuovi operai alle officine che ormai sempre più numerose andavano sorgendo […]. Oggi noi guardiamo all’opera di Don Bosco con un occhio di serenità e di compiacenza e a noi pare di vedere il santo sacerdote quando alla fine del gennaio 1888 nella sua stanza, vedendo vicinissima la morte, assiste alla sfilata dei suoi ragazzi innanzi al suo letto. I suoi occhi quasi spenti s’illuminano ancora del sorriso della gioventù.  

Il Decano Giovanni Scavotto, sulle orme di San Giovanni Bosco, introduceva la catechesi per i ragazzi, fatto insolito in una realtà, dove l’analfabetismo colpiva quasi il novanta per cento della popolazione. Nei giorni di domenica e festivi, la mattina c’era per i ragazzi la spiega del Vangelo e nel pomeriggio l’istruzione catechistica, inoltre veniva anche inserita nell’ora del giorno in cui Egli giudicava potersi avere maggiore frequenza di ragazzi l’insegnamento della dottrina cristiana. In questo ministero, oltre che dei cappellani e dei coadiutori egli si serviva della collaborazione di altri sacerdoti più giovani, da laici probi e donne pie di matura età e di parimenti virtù. L’insegnamento dei fanciulli era sempre separato da quello delle fanciulle[82].
Il sacerdote Giuseppe D’Armata il 10 dicembre del 1889 così scriveva all’Arcivescovo Mons. Gaspare Lancia di Brolo:

      Sebbene con molto ritardo per ragione di salute adempio al dovere di presentare col dovuto rispetto all’Eccellenza Vostra Rev.ma i miei più sentiti ringraziamenti per essersi benignata, contro ogni mio merito, nominarmi Cappellano Sacramentale di questa Parrocchia. Il mio Rev.mo Parroco Don Giovanni Scavotto per ben tre volte in occasione di altre vacanze mi invitò ad accettare tale officio. Io però sempre mi negai, perché stimavo non poter corrispondere ai doveri annessi al medesimo; e ciò avuto riguardo al male cardiaco che soffro; malattia per la quale fui esentato dal servizio militare. Ora agli inviti del Parroco aggiunti i comandi dell’Eccellenza Vostra, credo mio dovere uniformarmi alla volontà di Dio di obbedire ciecamente. Mi metto quindi alla prova, speranzoso che il Signore, premiando il mio buon volere mi dia quella salute e tutti quegli aiuti[83].

Nel 1889 il Decano Giovanni Scavotto scriveva all’Arcivescovo Mons. Lancia di Brolo che a Bisacquino per far quadrare i conti era costretto a diminuire le prebende ai canonici, portando come motivazione che a causa della povertà molte persone cominciavano a emigrare, mentre in paese per la mancanza di forza lavoro, la popolazione versava in gravi difficoltà economiche[84]. St trattava di un problema evidente in tutta la Chiesa siciliana, ecco perché, nel 1893, il Papa Leone XIII, con bolla pontificia, lasciava le prebende ai canonici, nei vari Capitoli, ma né limitava il numero e la partecipazione alle funzioni religiose.
Un’altra questione che si trovo ad affrontare per dirimere una controversia tra alcuni canonici fu quella per il posto che essi dovevano occupare nel Coro della chiesa Madre. Il 12 gennaio del 1891 ecco quando prescriveva l’Arcivescovo di Monreale:

      Rev. Sig. Decano, Nel rimettere a V.S., per l’uso conveniente, le accluse lettere d’istituzione a Canonici Onorari di codesta Insigne Collegiata in persona dei sacerdoti in margine designati, occorre significarle essere Nostra intenzione che tanto ai detti Canonici da noi eletti quanto ai due che saranno nominati a noi presentati da codesto Ill.mo Capitolo sia designato lo stallo in Coro a ordine di antichità di ordinazione e non già della presa di possesso. Tanto vorrà compiacersi comunicare agli interessati.[85].

Il Decano Giovanni Scavotto desiderava che la Chiesa locale avesse un’azione sociale più incisiva, per questo favoriva la nascita di alcune confraternite[86] e ravvivava le processioni; le più rilevanti erano la processione del “Precetto di Gala”[87] che si svolgeva una settimana dopo Pasqua, quando il Decano era trasportato sulla “portantina”[88] dai congregati del SS. Sacramento per portare il Viatico ai malati[89]; la processione del “Venerdì Santo abbellita con un “Urna” opera di artisti locali realizzata nel periodo del suo decanato, organizzata dalla Congregazione del S. Calvario”; la processione del “Corpus Domini organizzata dalla Congregazione del SS. Sacramento e la processione del “Tre Maggio”, la più importante,  dove partecipavano tutte le congregazioni con i loro stendardi e circa trenta statue di Santi facevano da corona a Cristo Crocifisso, custodito in una grande “Vara”: era in quest’ultima processione che il Decano indossava la cappa magna e stringeva a se il bacolo. 
All’archivio diocesano di Monreale ho trovato il documento che segue, datato 19 aprile 1883, che fa riferimento alla benedizione di una cappella al Calvario:

      Io Decano Arciprete e Vicario Foraneo di Bisacquino affine di dare esecuzione al mandato affidatomi dall’Ecc.za S. Rev.ma Mons. Giuseppe Maria Papardi per lettera del 27 marzo 1883 sono ito a visitare questa cappella eretta dalla Congregazione del SS. Crocifisso[90] nel luogo così detto il Calvario, avendola veduta decente a potervisi celebrare la S. Messa in conformità all’esposto nella supplica, umiliata dall’anzi Detta Congregazione al prelodato Arcivescovo, l’ho benedetta secondo il rito della Santa Romana Chiesa. In fede di che ho scritto il presente verbale e munito di mia firma non che del suggello di questa Curia For.a. Dato in Bisacquino addì 19 aprile 1883[91].

Un fatto storico, di cui ancora oggi se ne ha memoria, avvenne mentre era Arciprete Decano – di Bisacquino Giovanni Scavotto ed è il seguente. Nei primi giorni di febbraio del 1889, intorno alle ore 16,00, in un attimo, il cielo diveniva più scuro e dei fulmini accompagnati dal suono dei tuoni, scuotevano il paese, poi, cominciava a piovere. Dopo un’ora circa, la pioggia che cadeva violentemente sulle strade e i fabbricati assumeva tutte le caratteristiche di un vero e proprio nubifragio. Il paese per la posizione in cui si trovava, alle pendenze di una montagna, cominciava ad avvertire i segni della calamità. I contadini, cercavano in tutti i modi di rinforzare le aperture delle stalle dove custodivano gli animali, gli artigiani, le botteghe con gli attrezzi, in casa ci si adoperava a rinforzare porte e portoni. Pioveva a dirotto. Nelle vicinanze della piazza l’acqua raggiungeva circa due metri d’altezza. La lavina  in molte strade aveva assunto dimensioni mai viste prima, era un fiume in piena che si perdeva nell’intero abitato. Nel cielo imperversavano i lampi e i tuoni. Nella piazza, il ponte, non riusciva a contenere l’acqua abbondante del vallone che perveniva dalla Via Acquanova, allagando la Chiesa Madre fin quasi alla sacrestia e le case circostanti. L’acqua abbatteva anche un tratto del recinto presso il campanile e diversi muri della senseria, della conceria e della pescheria.  Un enorme volume d’acqua invadeva il fondaco, sfondava un muro e allagava la Chiesa della Grazia, anche la Chiesa di Santa Caterina era invasa dalle acque. In alcune case, l’urto della lavina era così dirompente che spalancava le porte e trascinava la mobilia e tutti gli altri suppellettili che incontrava. Dopo alcune ore il paese aveva ormai un altro volto, con i muri tinti di fanghiglia sino a quasi un metro e mezzo di altezza. La lavina cominciata nella parte in alto del paese attraversando varie strade si era ricongiunta in alcune vie, come all’Acquanova, al Rosario, a San Vito e alla Villa, per continuare la sua corsa nel fiume Bruca. Le persone si spostavano negli ultimi piani degli stabili, nelle case ormai i piani terra erano in balia dei torrenti. Un vento da proporzioni inaudite intanto imperversava nel centro urbano tra le strade e i cortili. Una persona trascinata dall’acqua moriva.
Passato il diluvio, i dipendenti del Comune si apprestavano a riaccendere i lumi dei fanali, Giovanni Scavotto scendeva in piazza e tra quei fari accesi nella notte, i Bisacquinesi si stringevano attorno al suo Decano.
3.5 IL CULTO PER LA MADONNA

Il Decano Giovanni Scavotto quando pregava si rivolgeva alla “Madunnuzza”, la Sacra Immagine del Balzo[92] venerata dai Bisacquinesi e dalle popolazioni dei paesi vicini sul monte Triona. Dal primo al quindici di agosto del 1837 fu il predicatore delle celebrazioni in onore della Madonna del Balzo.
      La festa della Madonna del Balzo, che coincide con la solennità dell’Assunzione, è preparata da una Quindicina predicata. Tutte le mattine prima dell’alba, i Bisacquinesi sciamano dal paese verso il Santuario e riempiono la Chiesa. La sera è un altro affascinante spettacolo: in ogni via, o almeno in ogni quartiere, s’innalzano degli altari della Madonna, illuminati da molte candele, e intorno ad essi siedono donne e vecchi, fanciulle e bambini, i quali recitano il Rosario, cantano graziose laudi alla dolce Patrona[93].

Egli restava sempre legato alla figura della Madonna del Balzo  per questo, durante il periodo del suo incarico di arciprete, si realizzava all’ingresso di Bisacquino una Cappella che prendeva il nome di “Madunnuzza”, Corrado Fanari dipingeva su lastra di pietra l’immagine della Madonna del Balzo.
Sulla devozione popolare nel corso dei secoli alla Madonna del Balzo, il Decano Don Lino Di Vincenti, così ne parla:

      Ha fatto rivivere non solo l’avvenimento straordinario dell’apparizione della Vergine SS., ma tutta la storia di amore della Madre Amorosa nei confronti dei suoi figli e la devozione filiale alla Madonna del popolo bisacquinese, che non è venuta mai meno, ma si è sempre accresciuta con il passare degli anni e dei secoli.[94].

Il Decano Giovanni Bacile, così si esprime sugli emigrati bisacquinesi, così legati al culto della Madonna del Balzo:

      Prima di partire salirono sul Triona per salutare la Celeste Madre, per dirLe che lontano lontano non l’avrebbero mai dimenticata […]. Nel nuovo mondo fecero conoscere la loro Madonnina, ne parlarono spesso con le lacrime agli occhi, molte cose avranno potuto dimenticare, mai la Vergine del Balzo.

In quel periodo si sviluppava anche la poesia popolare sui miracoli della Madonna del Balzo, come per esempio:

      Un circaturi pia cerca jia; ‘cennu a Rivela s’arriposa un pocu: nta n’aria lu furmento si cirnia (e chista è le vritati e nun vi jocu): affaccia un luci d’in mezzo la via, all’aria jiungi ‘na vampa di focu e di lu Vazu chiamannu a Maria lu focu si nii jiu pi n’atru locu[95].

L’11 febbraio del 1858 Bernadette Soubirous, discendente da una famiglia povera, nella grotta di Massabielle a un chilometro da Lourdes si accorge che esce dalla grotta una nube di colore d’oro e subito dopo una bella Signora vestita di bianco con una fascia azzurra che scende lungo l’abito, i piedi erano nudi e su di essi brillava su ciascuno una rosa d’oro, al braccio aveva un rosario dai grani bianchi. In tutto ci saranno diciotto apparizioni in una scavando per terra Bernadette svelerà una sorgente d’acqua, in un’altra la Madonna di Lourdes le dirà: “Io non vi prometto di rendervi felice in questo mondo ma nell’altro”, durante l’apparizione del 25 marzo, festa dell’Annunciazione, è rivelato a Bernadette che la bella Signora è l’Immacolata Concezione. Morì il 16 aprile del 1878[96]. Il Decano restò colpito dei fatti successi a Lourdes. Infatti, apprendendo, la notizia della morte di Bernadette Soubirous, anche se nel mondo ecclesiastico si manifestavano ancora dei dubbi, fece commissionare un quadro per la chiesa Madre. Il 30 giugno del 1880 durante la visita pastorale di Mons. Giuseppe Papardi fece benedire questo quadro, che pose nella Chiesa Madre con questa iscrizione:

      L’Eccellentissimo Monsignor Papardi Arcivescovo della Diocesi di Monreale concede giorni 40 d’indulgenza a chi divotamente reciterà un Ave Maria a questa Miracolosa Immagine di Lourdes[97].

Bernadette Soubirous sarà Beatificata nel 1925 e Canonizzata nel 1933.

3.6.  SEQUENZA
Giovanni Scavotto fu l’ultimo Decano a essere trasportato con la portantina per il c.d. “Precetto di Gala”.
Il 14 febbraio del 1898 il suo discepolo Costantino Margiotta era nominato Decano Arciprete di Bisacquino.
Sempre nel 1898 la chiesa di San Nicolò era ceduta (o venduta) dal Comune di Bisacquino all’allora Sindaco di Bisacquino, che la trasformava in mulino a cilindri; il Monastero era prima adibito a caserma di soldati, poi parte a carcere mandamentale e parte a macello. Il giardino annesso con l’attiguo mulino ad acqua passavano ad una famiglia di nobili[98].
Il 26 giugno del 1913 quando era economo il Can. Pasquale Ceravolo[99], era inaugurato il quadro che si trova in copertina e che è collocato nella sacrestia della chiesa Madre di Bisacquino.
Il 26 giugno del 1931 per opera del Decano Mons. Giovanni Bacile, che definiva il Decano Giovanni Scavotto,

      Un uomo caritatevole ed un Reverendissimo Signor Decano che fu veramente un Signore[100],

gli era dedicato un medaglione in marmo con la sua effige, posto all’interno della chiesa Madre, con la seguente iscrizione:

      Bisacquinesi, più di questo marmo, più della cupola innalzata in parte coi beni da lui a questa chiesa legati, dicano perenne gratitudine al Decano Giovanni Scavotto le vostre preghiere per la sua pace eterna.

Il 20 agosto del 1941 morì, mentre ricopriva la carica di Decano, all’età di 61 anni, Mons. Giovanni Bacile.

Nel 1958 morì Suor Maria Giovanna Rotolo.
Nel 1962, per salvaguardare il suo corpo, per opera del Decano Don Calogero Di Vincenti, era realizzata una struttura in muratura.
Il 26 giugno del 1997 grazie al Decano Don Lino Di Vincenti, nel centenario della morte, la tomba del Decano Giovanni Scavotto era abbellita con splendidi marmi in granito e vi era posta la foto del dipinto in copertina.

IL PASTORE ALLE SUE PECORELLE

Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella, più che per le novantanove che non si erano smarrite[101].
Come San Nicolò, aveva preservato i suoi beni per consegnarli alla Chiesa locale, nello stesso modo si comportò anche il padre Decano, questo è  il suo testamento spirituale:

      Si Ascoltatori, il nostro grand’Eroe intese di sì ardente zelo accendersi il petto che nel più fitto della tempesta, in mezzo allo imperversarsi dei venti corre in aiuto alla navicella divenutone bersaglio; fra il ruggir dei leoni, fra l’ulular dei lupi si fa intrepido a difender le sue pecorelle[102].

In un altro passo, vediamo la concezione del sacerdozio:

      Ma quanto per lo continuo brama o nel recinto delle sue mura interveniva in dolci colloqui col suo Dio; o nei sacri templi alla presenza dell’adorato Sacramento, in compagnia degli Angioli celebrar divoto con inni e sacri cantici le divine perfezioni! Ed or venera bando piega le ginocchia e la fronte inchina dinanzi l’altare ove la memoria si rinnova del gran sacrificio della croce ed indi con un cuore di ogni terreno affetto spoglio e di candida veste adorno, siede a sacra mensa e la sua bell’anima del pane angelico riconforta. Ed allorquando apre il sacro volume e si fa leggere le celesti verità dal dito del Divino Spirito segnate, spiega si alto della mente il volo, che assorto in una estasi e poco men’che non dissi in una visione beatifica né le ore che si succedono, né caldo né gelo, né fame, né sete, ei sente, sta buona posta immobile e senza mutamento sembra, che abbandonata la grata spoglia sia a stasiarsi cogli Angeli nel Cielo. Se non che gli strani accendimenti, il celeste lume, che da Dio riverbera ne annunzian la vita.

Infine, l’uomo Giovanni Scavotto, possiamo racchiuderlo in questa sua frase:

      Quantunque l’ala del tempo voglia coprire di oblio ogni cosa, e gli uomini che sono stati nel forte e nell’apparenza, come quelli che in una vita umile ed oscura si sono esercitati nella palestra delle virtù, pure son di avviso o Signori, che ci sono individui privilegiati, i quali, senza lasciare eredità di affetti, hanno la fortuna di eludere un tal fato crudele, perché il mondo teatro di loro beneficienze ne conserverà memoria imperitura[103].
Rievoco quanto segue, quando termino di scrivere questa biografia sul padre Decano.
Ricordo, che avevo dieci anni, allora abitavo nel centro storico di Bisacquino, quella mattina nevicava, attraversai una parte della Via Savoca, poi scesi i gradini della via Piave e pervenni nella piazza Triona, poi, andai a trovare mio zio, il Decano Don Calogero Di Vincenti, che allora viveva nei  locali del salone parrocchiale, perché la canonica era in fase di ristrutturazione. Mio zio, lo trovai in una stanza al secondo piano, che ammirava di là dai vetri di un balcone la piazza Triona.
Con mio zio, che qualche settimana dopo, a soli 52 anni, avrebbe lasciato questa vita, commentavamo quel giorno, caduto dal Cielo, con la neve, quando mi disse questa frase:
E’ sempre bello vedere Bisacquino mentre nevica.
Nevicava e di fronte a noi si vedeva la Bisacquino di ieri, con i tetti delle case, i palazzi che un tempo erano stati dei nobili, il Municipio, la Chiesa Madre e la piazza Triona che si andavano coprendo di neve.





























FOTO CHIESA MADRE DI BISACQUINO AL TEMPO DEL DECANO SCAVOTTO.


FESTA DEL TRE MAGGIO COL DECANO G. SCAVOTTO[104]


INDICE
Presentazione………………………………………………………....pag.    3

Introduzione……………………………………….............................. pag.   5


Capitolo 1 – L’Uomo…………………...……….................................. pag.   7
1.1  La sua città………………………………………………………….pag.   7
1.2  La chiesa del suo tempo…………………………………………….pag.   8
1.3  Profilo biografico……………………………… …………………..pag.   9
1.4  La famiglia Scavotto………………………………………………..pag. 19

Capitolo 2 – Il Sacerdote………...………………............................... pag. 23
2.1 Formazione……………………………………................................ pag. 23
2.2 La giustizia di Dio………………………………………................... pag. 26
2.3 La devozione a San Nicola…………………………......................... pag. 27

Capitolo 3 – Il Pastore…………………………….............................. pag. 30
3.1 Nomina… ………..……………………………............................... pag. 30
3.2 Parroco…………  .…………………………….............................. pag. 33
3.3 Disposizioni………………...…………….……................................ pag. 34
3.4 Attività pastorali……………………………......................... ………pag. 35
3.5 Il culto per la Madonna………………………….............................. pag. 40
3.6 Sequenza…….............................................................................. ….pag. 42


Il pastore alle sue pecorelle ………………… ……………………….pag. 44

Il Pastore alle sue pecorelle è tratto dal titolo di un discorso del Decano Don Calogero Di Vincenti - Archivio Chiesa Madre – Discorsi d’occasione.
Si ringrazia per la gentile collaborazione prof. Sandra Vaglica
Foto in copertina prof. Mimmo Andretta.
Nella foto del retro della copertina Don Calogero Di Vincenti, Nino Di Vincenti (mio padre) ed io.


Finito di stampare
presso Tipografia – Rilegatoria – Litografia
Sandra Vaglica
Via  Venero, 177 – Monreale (PA) – cell. 349 5005745 – 320  4424217
Settembre  2009






[1] In corso una causa di beatificazione, postulatore sacerdote Don Ignazio Pizzitola.
[2] Mons. Saverio  FERINA, Bisacquino storia del Sacro, Ila Palma Mazzone Produzione, Partinico (PA) 2008. Descrizione riguardante il periodo antecedente il 1703, data in cui fu demolita la prima Chiesa Madre.

[3] Il paese di Contessa Entellina non fa più parte della Forania di Bisacquino, in quanto è passato sotto la giurisdizione dell’Eparchia di Piana degli Albanesi.                          
[4] Tratto da alcune lezioni di Dottrina Sociale di Mons. Vincenzo Noto, all’Istituto diocesano di scienze religiose.
[5] Decano Don Calogero Di Vincenti. Archivio Chiesa Madre di Bisacquino. Sez. 3 – Attività, serie 6 Discorsi d’occasione, fasc. 3.
[6] Scrisse tra l’altro una storia sulla chiesa siciliana, consultabile nella sacrestia della chiesa Madre di Bisacquino.
[7] Una biografia su questo Decano di Bisacquino, ancora non era stata scritta, esistono solo due pagine del Can. Lucia, utili per questo lavoro, però per alcuni fatti non attendibili per la composizione della famiglia. Infatti il Lucia riteneva che il Decano Scavotto avesse un solo fratello Giuseppe il quale svolgeva la professione di medico.
[8] Il titolo don sta per signore, tipico delle famiglie abbienti.
[9] Per quanto riguarda il cognome Dolce non esiste più a Bisacquino, all’Archivio comunale ho trovato una Dolce Antonina deceduta il 17/08/1897.
[10] La chiesa Madre ampia e ricca di stucchi è dedicata a San Giovanni Battista, così la definisce A. G. Marchese: <<E’ stata inclusa dal Boscarino tra le opere di architettura popolare siciliana i cui “protagonisti sono i mastri di muro, cioè i murifaber e i caput magister  che per la capacità che avevano nell’intaglio lapideo e per l’importanza che nell’immagine della fabbrica vi si dava, vengono spesso chiamati lapidum incisores. Costruita nel corso del XVII secolo (le date del 1756 –’57 e 1760 ricorrono nella facciata), la Chiesa Madre di Bisacquino segue l’impianto basilicale a tre navate con transetto e absidi semicircolari (mentre la cupola è una addizione del primo ‘900)>>. Cfr. Antonio Giuseppe Marchese, <<La Chiesa Madre di Bisacquino “Uno Scrigno d’Arte>>, Fabio Orlando editore, 1998, pag. 4
[11] Abitavano tra la piazza è la via delle Poste, la loro grande casa ora è di proprietà delle famiglie Iannazzo, Agozzino e Tortorici e degli abitanti del palazzo che si trova in piazza Triona. La parte ereditata dal Decano Giovanni Scavotto fa parte dell’Orfanatrofio Madonna delle grazie.
[12] Un appartenente alla sua famiglia Noto Giuseppe fu Decano di Bisacquino dal 10/01/1796 al 31/03/1805.                       
[13]  Mons. Domenico Benedetto Balsamo (Arcivescovo di Monreale dal 23 settembre 1816 – al 6 aprile 1844). Studiò nel seminario di Monreale, fu una delle figure più importanti del periodo tra l’altro fu Preside della Regia Università. Di carattere pio si distinse per la scelta di sacerdoti illustri come insegnanti del Seminario, alcuni provenienti da Regioni del nord Italia.
[14] Tratto da un discorso del Decano Don Calogero Di Vincenti su San Giovanni Bosco. Archivio Chiesa Madre di Bisacquino. Sez. 3 – Attività, serie 6 Discorsi d’occasione, fasc. 3.
[15] In quel periodo a Bisacquino vivevano 31 sacerdoti: Pasquale Scavotto, Gianbaldo Collura, Matteo Giaccone, Antonio Porcelli, Gregorio Marsolo, Santo Bondì, Gaspare Piazza, Giuseppe Scavotto, Gioacchino Leone, Francesco Giardina, Pietro Guarino, Michele Chiarelli, Francesco Pancamo, Giovanni Scavotto, Matteo Scaglione, Gaspare Giaccone, Antonino Piazza, Costantino Margiotta, Stanislao Mancuso, Gregorio Milazzo, Domenico Bacile, Erasmo Capra, Salvatore Lo Voi, Francesco Giaccone, Giovanni Piazza, Pietro Miranda, Domenico Campisi, Giuseppe Scavotto, Biaggio Gulotta e Saverio Plaia.
[16] L’Insigne Collegiata Chiesa di Bisacquino è stata istituita con Bolla del Papa Benedetto XIV del 30 novembre 1747, la successiva costituzione del 4 dicembre 1760 conferma che la Matrice consta di dignità e canonici. Tre sono le dignità: il Decano Arciprete che è la prima dignità: il Tesoriere che è la seconda dignità: il Ciantro che è la terza dignità e poi ci sono i canonici in totale innumero di tredici (detti di prima erezione inclusi le tre dignità) ed i c.d. Mansionari del Sacramento (c.d. sotto canonici). I canonici siedono nella chiesa Madre nella parte alta del coro, con una mozzetta color rosa antico, i mansionari siedono nella parte bassa, questi ultimi vestono una mozzetta color nero. Nel 1893 il Capitolo fu ridimensionato.
[17] Nel 1866 l’Arcivescovo di Monreale Benedetto D’Acquisto venne arrestato perché si era ribellato all’espropriazione dei beni ecclesiastici.
[18] Le suore seguivano le regole di S. Benedetto e osservavano la più stretta clausura. Erano divise in due categorie: le signore e le converse. Le signore per essere ammesse dovevano portare una buona dote, lavoravano di ricamo, gestivano la loro farmacia, confezionavano dolci squisiti ed erano obbligate a recitare il divino officio ogni giorno (come fanno i sacerdoti). Le converse non portavano alcuna dote, ma erano adibite a tutti i servizi materiali: pulizia, bucato, forno, cucina ecc., erano tenute solo a recitare il Rosario. Cfr. Can. D. Bernardo Lucia, Monografia di Bisacquino, Palermo Tip. Ed. Fiamma Serafica, 1968, pag. 95.
[19] Mons. Salvatore Milazzo nacque a Bisacquino il 7 novembre 1800, da Nicola Milazzo e Rosaria Marino. Fu anche amministratore apostolico della diocesi di Agrigento dal giugno 1871 al marzo 1872. Morì il 19 giugno del 1886 ed è seppellito nel camposanto di Monreale in un’artistica tomba. Mons  Saverio Ferina ha donato alla chiesa Madre un suo ritratto, che è collocato nella sacrestia.
[20] Da una ricerca effettuata all’Archivio Diocesano di Monreale ho trovato un atto relativo al concorso per Decano dopo la morte del Decano Giovanni Scavotto. In quest’atto inoltre si afferma che mentre per la nomina del Giardina fu fatto il concorso, per il Decano Scavotto non fu bandito. Arcidiocesi di Monreale. Archivio storico diocesano. Fondo Governo ordinario Sez. 9. Serie 6 – 1 Num. 2 – Concorso per Decano di Bisacquino.
[21] Vedi bolla di nomina Archivio Diocesano di Monreale
[22] Dopo il 1866 con una legge delle Stato Italiano si stabiliva che le nomine all’interno della gerarchia ecclesiastica erano di sola competenza della Chiesa. Prima avvenivano per nomina Regia e quindi anche gli ecclesiastici erano dei funzionari dello Stato.
[23] Mons. Giuseppe Papardi Arcivescovo di Monreale dal 1871 al 1883.
[24] Nell’Archivio diocesano di Monreale ho trovato una lettera di ringraziamento del Decano Sacvotto, una copia è in mio possesso.
[25] T. Salvaggio, Bisacquino frammenti di storia, Patrocinio Comune di Bisacquino, 2006, pag. 409

[26] N. FILIPPONE, Don Calogero Di Vincenti – L’Apostolo del sorriso, Tip. Aurora, Corleone 1997, pag. 34

[27] Oggi Piazza Triona e Corso Umberto.
[28] A seguito di una lunga infermità.
[29] Vedi atto Archivio Chiesa Madre di Bisacquino. Una copia è in mio possesso.
[30] A seguito di ricerche promosse dall’Assessore Provinciale Pino Colca che hanno portato alla realizzazione di un  volume.
[31] A.G.Marchese, La Chiesa Madre di Bisacquino-Artisti, maestranze e committenti dal Cinquecento al Settecento, con prefazione di Piero Longo e Don Pasquale Di Vincenti e presentazione di Salvatore Di Cristina, Arcivescovo di Monreale e Foto di Enzo Brai .Editore Plumelia 2009.
[32] Tratto da un discorso del Decano Don Calogero Di Vincenti. Archivio Chiesa Madre di Bisacquino. Sez. 3 – Attività, serie 6 Discorsi d’occasione, fasc. 3.
[33] Vedi epistolario Archivio diocesano di Monreale.
[34] Il Capo del Governo Italiano Francesco Crispi in Parlamento, nel 1894, illustrava il c.d. “Trattato di Bisacquino”, per cui poneva lo stato d’assedio in tutta la Sicilia. Fantomatico trattato tra alcuni Stati della Santa Alleanza, Francia e Russia, dei Legati Pontifici e della massoneria per cui la Sicilia doveva essere annessa alla Francia. Cf. Francesco Renda, Socialisti e cattolici 1901 -1904, Sciascia, Caltanissetta – Roma 1990.
[35] Tra i responsabili del Boccone del Povero un ruolo preminente nel XX secolo ebbe Scaturro Ignazia.. Persona appartenente ad una famiglia benestante di Bisacquino che viveva in una grande casa vicino la Chiesa di Santa Caterina. Ancora giovane era conosciuta in paese per la carità ai poveri, soprattutto ogni lunedì quando distribuiva loro l’olio. Inoltre con altre donne del quartiere svolgeva assistenza ai malati poveri che non avevano alcun parente. Ignazia Scaturro inoltre, con altre donne facenti parte della Congregazione delle Sacramentine raccoglievano in paese per dare da mangiare a questi indigenti, che facevano andare ben vestiti. Ignazia Scaturro come mi è stato riferito da Mons. Saverio Ferina, ebbe un tumore in una gamba, diagnosticato dai medici, che miracolosamente scomparì. Morì povera a soli 58 anni d’età nel 1938, nei locali del Boccone del Povero, in fama di santità, assistita dalle suore Bocconiste che in seguito avevano preso possesso del Boccone del Povero è che di loro ancora oggi se ne serba il ricordo come suore veramente caritatevoli che spesero la loro vita per gli indigenti. La sua tomba al cimitero si trova quasi di fronte a quella del Decano Scavotto.
[36] Atto rinvenuto nell’Archivio Diocesano di Monreale. Una copia è in mio possesso.
[37] T. SALVAGGIO, <<Bisacquino Frammenti di Memoria>>, Patrocinio Comune di Bisacquino, Pezzino Editore, Palermo 1997, pag. 218 (Articolo di Michele Avitabile – Nel paese di Capra).
[38] Lettera che si trova nell’archivio diocesano di Monreale. Una copia è in mio possesso.
[39] Telegramma che si trova nell’archivio della diocesi di Monreale. Una copia in mio possesso.
[40] E’ stato uno dei funerali più partecipato a Bisacquino, come raccontatomi da Frate Antonio Ferlisi, che visse alcuni aanni dopo la morte del Decano Scavotto.
[41] Episodio raccontatomi da frate Antonio Ferlisi.
[42] Stimato sacerdote che svolse il suo ministero sacerdotale a Bisacquino e nel paese di Palazzo Adriano, dove è sepolto.
[43] Aveva due fratelli sacerdoti Vito Scavotto Canonico Ciantro e Domenico Scavotto canonico della Collegiata di Bisacquino.
[44] Curatore dell’ospedale, vi passava buona parte della giornata confortando gli infermi, dando loro un aiuto spirituale ed esortandoli alla pazienza, e quand’egli ne fu pure infermo fece suoi questi precetti. Di quale zelo non diede spettacolo aiutando gli indigenti nel quartiere di Santa Caterina. Non contento di questo lasciò tutto il patrimonio all’ospedale appena chiamato agli eterni riposi l’ultimo della famiglia[44]. In una lapide posta nella Chiesa di Santa Caterina a Bisacquino si legge la seguente epigrafe: <<Al Canonico Giuseppe Scavotto e Consiglio Ciantro di questa Insigne Collegiata per pietà  e costumi a veruno secondo. Ai mendici infermi vigile amico e padre. Dei languenti nel primo colera. Sostegno ed angolo consolatore. Per otto anni martire di paralisi e vittima. Dei suoi beni largitor generoso. Per la cura delle anime, per gli accolti nel pubblico ospedale. Morto di anni 72 il 30 gennaio 1859. Pace, benedizione e gloria>>.
[45] La frequenza nella preghiera, il passare lunghe ore nell’orazione di Gesù in Sacramento, la sua modestia ammirevole, la sua semplicità che garegiava con quella degli innocenti, il suo linguaggio retto ed ispirato alle massime della religione, l’assiduità allo studio, l’illibatezza infine dei suoi costumi ne fecero un uomo esemplare. Si distinse come benefattore dell’ospedale.[45]
[46] Dopo l’espletamento del concorso fu nominato Decano Arciprete Don Francesco Giardina. Il Capitolo alla fine degli anni ’50 era così composto: Decano Giardina Francesco, Tesoriere Santo Bondì Ciantro Francesco Pancamo, Canonici Giovanni Scavotto, Gregorio Milazzo, Domenico Bacile, Giuseppe Scavotto, Costantino Margiotta, Antonino Piazza, Pietro Epifanio Guarino, Salvatore Leone, Biagio Gulotta, Vincenzo Pizzitola, Giuseppe Filippone, Gaspare Giaccone, Vincenzo Faccidomo più  i Mansionari.
[47] Fiorenza Giuseppa, legatissima al marito per adempiere alle sue ultime volontà lasciò i suoi beni all’ospedale Scavotto. Il cognato Emanuele Scavotto volle che fosse seppellita nella tomba di famiglia dove nel marmo sono incise le sue virtù.
[48] Il laicato che oggi più che mai sembra voler sostituire allo spirito cristiano uno spirito diametralmente opposto aveva in lui un modello esemplare con le sue azioni rivolte verso gli infelici. La vita infatti di Don Luigi possiamo chiamarla specchio di virtù e quantunque vivesse nel mondo pure non ne partecipava allo spirito. La sua mano fu sempre pronta verso i poveri, i quali vedevano in lui un assiduo soccorritore alla loro indigenza e perché l’opera sua caritatevole non venisse mai meno dispose che sul suo patrimonio prelevandosi pochi legati poi il resto fosse in vantaggio dei poveri dell’ospedale.
[49] Fu merito del padre  Emanuele Scavotto se la Chiesa di Sant’Anna non passò al Comune, in quanto aveva utilizzato i locali attigui del convento dei Cappuccini per fondarvi l’ospedale Civico, assegnandogli la rendita di circa lire dieci mila annue, sufficienti per il mantenimento di n. 16 posti letto per gli ammalati. Inoltre per la Chiesa del Carmine, con il denaro ricevuto dai genitori, mentre era Padre Provinciale abbellì il bel campanile, creò un inferriata in ferro battuto all’esterno, abbellì il pavimento con marmo, acquistò un grande organo ed abbellì di marmi gli altari.
[50] Genitori di lei Rosalino e Basta Antonia.
[51] Ora abitato dalle Suore dell’Ordine di Madre Teresa Cortimiglia e dagli anziani della Nuova Opera Pia Madonna delle Grazie.
[52] Vedi La Stella di Bisacquino – G. Bacile - settembre 1931
[53] Cfr. G. Millunzi, Storia del Seminario di Monreale, edit. S. Bernardino, 1895, pag. 229

[54] Don Calogero Di Vincenti. Archivio Chiesa Madre di Bisacquino. Sez. 3 – Attività, serie 6 Discorsi d’occasione, fasc. 3.
[55] Tratto da un discorso del Decano Giovanni Scavotto - Archivio Chiesa Madre di Bisacquino. Sez. 3 – Attività, serie 6 Discorsi d’occasione, fasc. 3.
[56]L’anno accademico iniziava il 4 di novembre con la lettura di un discorso inaugurale, le lezioni terminavano alla fine di maggio; ogni materia aveva la durata di un’ora e un quarto, la scuola chiudeva alle ore ventuno e un quarto.
[57] Copia del documento in mio possesso.
[58] Certificato di laurea - Archivio diocesano di Monreale. Copia in mio possesso.
[59] Tratto da un discorso del Decano Don Calogero Di Vincenti su San Giovanni Bosco. Archivio Chiesa Madre di Bisacquino. Sez. 3 – Attività, serie 6 Discorsi d’occasione, fasc. 3
[60] Discorso decano Giovanni Scavotto. Arcidiocesi di Monreale. Archivio storico diocesano. Fondo Governo ordinario Sez. 9. Serie 6 – 1 Num. 2 busta 695.
[61] Archivio Chiesa Madre – Bisacquino - si trova nell’archivio della chiesa Madre di Bisacquino, Sez. 3 attività
[62] Discorso Decano Scavotto, si trova nell’archivio della chiesa Madre di Bisacquino, Sez. 3 attività, serie 6, discorsi d’occasione, Fasc. 3.
[63] Rosalia  F. Margiotta, Tesori d’Arte a Bisacquino, Salvatore Sciascia Editore, 2008, pag. 68
[64] Documento inedito rinvenuto nell’Archivio della Chiesa Madre dal Prof. A.G. Marchese ed in mio possesso una copia.
[65] N. Filippone, Don Calogero Di Vincenti – L’Apostolo del sorriso, Tip. Aurora, Corleone 1997, pag. 34
[66] S. Contorno, Discorso pronunciato ai funerali del Decano Don Calogero Di Vincenti
[67] Mons. Giuseppe Papardi Arcivescovo di Monreale dal 1871 al 1883.
[68] Per quanto riguarda questa ricostruzione ho preso degli spunti dal libro: I: Pizzitola, Mons. Giovanni Bacile, Tipografia Aurora, Bisacquino 1991, pag. 54 e 55  
[69] Discorso Decano Di Vincenti, archivio Chiesa Madre
[70] Vedi lettera datata 5 maggio 1877- Archivio diocesano di Monreale. Una copia in mio possesso.
[71] Mons. Rosario Bacile, Giovanni Bacile sacerdote,Centro Maria Immacolata,  Monreale 1979
[72] M. Naro, Quest’uomo è il parroco – Giovanni Bacile decano di Bisacquino, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta – Roma 2005, pag. 84
[73] Tratto da un discorso del Decano Don Calogero Di Vincenti su San Giovanni Bosco. Archivio Chiesa Madre di Bisacquino. Sez. 3 – Attività, serie 6 Discorsi d’occasione, fasc. 3.
[74] Ordinato sacerdote nel 1846.
[75] T. Salvaggio, Bisacquino frammenti di storia, Patrocionio Comune Di Bisacquino, 2006, pag. 409
[76] N. Filippone Don Calogero Di Vincenti – L’Apostolo del sorriso, Tip. Aurora, Corleone 1997, pag. 34
[77] Archivio Diocesano di Monreale. Copia in mio possesso.
[78] Vedi Visita pastorale di Mons. D. Domenico Gaspare Lancia dei Duchi di Brolo eseguita a Bisacquino dal 29 settembre al 18 ottobre 1890. In cui si parla anche della conservazione dei sacri arredi. Archidiocesi di Monreale. Archivio storico diocesano. Fondo Governo ordinario busta 74.
[79] Vedi giornale locale la Stella di Bisacquino, settembre 1931.
[80] G. Bacile, La Stella di Bisacquino, settembre 1931.
[81] G. Bacile, La Stella di Bisacquino, settembre 1931.

[82] Archidiocesi di Monreale. Archivio Storico Diocesano. Fondo Governo Ordinario. Busta n. 74
[83] Vedi Arcidiocesi di Monreale – Archivio Storico Diocesano. Fondo Governo Ordinario Sez. 9 Serie 6 – 1 Num. 1 busta 694. Lettera di accettazione del Can. Giuseppe D’Armata del 10/12/1889.
[84] Vedi Arcidiocesi di Monreale – Archivio Storico Diocesano. Fondo Governo Ordinario Sez. 9 Serie 6
[85] Vedi Arcidiocesi di Monreale – Archivio Storico Diocesano. Fondo Governo Ordinario Sez. 9 Serie 6 – 1 Num. 1 busta 694.
[86]   Tra le quali quella della Madonna del Carmine e quella della Madonna del Rosario.
[87] Una solennità cui partecipava il Decano Scavotto avveniva per tradizione la domenica dopo Pasqua quando si portava il precetto di gala agli ammalati che abitavano nella via maestra, cioè nelle vie dove era solito passare la processione del Crocifisso. <<Veniva chiamato “precetto di gala” cioè solenne perché si svolgeva con grande solennità. Vi partecipava tutto il clero in abiti corali, tutti i Congregati del Sacramento e una gran folla di popolo. Circa le ore dieci usciva la processione dalla Matrice; precedevano i Congregati del Sacramento col gonfalone; dopo veniva il clero e poi il Decano in piviale colla pisside e il Santissimo. Il Decano alla porta della Chiesa si sedeva sulla Portandina, e veniva trasportato durante tutta la processione; questa veniva interrotta, quando il Decano entrava in qualche casa per fare il precetto all’ammalato, ivi abitante. Un’altra occasione in cui si usava la Portandina era quando il Decano Scavotto la sera portava il SS. Viatico a qualche ammalato. Appena suonava il segno della campana, una gran folla accorreva alla Matrice. Il Decano seduto dentro la Portandina reggeva la pisside col Santissimo, i canonici e la congregazione precedevano colle lanterne accese mentre il popolo seguiva la Portandina>>. Tratto da: LUCIA, Monografia di Bisacquino, opera già citata.
[88] La Portandina (sedia gestatoria) risale ai primi anni del 1700. Su ogni lato vi sono bellissime pitture, che riproduco scene del Vecchio e del Nuovo Testamento inerenti all’istituzione dell’Eucarestia (la moltiplicazione dei pani; la lavanda dei piedi; l’ultima cena). Cfr. Antonio Giuseppe Marchese, <<La Chiesa Madre di Bisacquino “UNO SCRIGNO D’ARTE>>, Fabio Orlando editore, Palermo 1998
[89] La “Portandina” è custodita nella Chiesa Madre di Bisacquino. Giovanni Scavotto fu l’ultimo Decano a salire sulla “Portandina”.
[90] Superiore della Congregazione del Crocifisso (Santo Calvario) Bernardo Tortorici.
[91] Lettera rinvenuta all’archivio diocesano di Monreale, della quale ne ho una copia.
[92] Decano Lino Di Vincenti <<Maria SS. del Balzo>>, a cura del Santuario Madonna del Balzo, Tip. Aurora, Bisacquino 1992, pag. 7

[93] Tratto dai libri di Mons. Giuseppe Petralia sulla Madonna del Balzo.
[94]D. L. Di Vincenti, Maria SS. del Balzo – Patrona di Bisacquino, a cura del Santuario, Bisacquino – 1992, pag. 20
[95] Tratto dal libro di Giuseppe Pietramale – Enigma sul Triona, Renzo Mazzone Editore, c.e.IlaPalma, 2009

[97] Trascrizione che si trova nella Chiesa Madre di Bisacquino nella cappella di Lourdes.
[98] Notizie tratte da Can. D. B. Bernardo Lucia, <<Monografia di Bisacquino>>, Ed. Fiamma Serafica, Palermo 1968, pag. 96
[99] Il Can. Pasquale Ceravolo maturò la propria vocazione sacerdotale mentre era Decano di Bisacquino Giovanni Scavotto. Frate Antonio Ferlisi che fu custode del Santuario della Madonna del Balzo mi raccontava che alla messa che celebrava la domenica mattina in Matrice c’era sempre la partecipazione di molte persone perché era un grande oratore. Ancora diceva frate Antonio che dedicava molte ore della giornata allo studio.
[100] Vedi giornale locale Mons. Giovanni Bacile <<La Stella di Bisacquino>>, settembre 1931.
[101] Mt. 18,12-13
[102] Discorso del Decano Scavotto su San Nicolò, opera già citata.
[103] Tratto da un discorso del Decano Scavotto. Archivio Chiesa Madre di Bisacquino. Sez. 3 – Attività, serie 6 Discorsi d’occasione, fasc. 3.
[104] Foto su gentile concessione del Rag. Totuccio Salvaggio tratta da: T. Salvaggio, Bisacquino frammenti di storia, Patrocionio Comune Di Bisacquino, 2006, pag. 409


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