Le Vallate del Triona


LE VALLATE DEL TRIONA






SAVERIO DI VINCENTI






Introduzione

Parlare   delle   vallate  del  Triona  e  del suo circondario,  fa venire alla mente, nella  sua  immediatezza,  ad una   esplosione di colori che  fa rimanere estasiati allo stesso modo di  un bambino che guardi per la prima volta un caleidoscopio.
Suggestioni  queste  che,  nella  realtà  si  trasformano  in  un insieme  di colline, monti, ruscelli, boschi e tutta la fauna che la natura ha donato a questo territorio.
Per  non parlare delle  testimonianze  lasciate  dall’uomo nel corso dei  secoli di storia  siciliana.  Basti  pensare  ad  una serie  sterminata  di castelli, monasteri,santuari ed  abitazioni che ancora oggi conservano il loro fascino e ci riportano col  pensiero  al  tempo  in cui rappresentavano  il  simbolo del  potere  politico,religioso e sociale.
Ricordi che comunque rimangono  vivi ed allo stesso tempo ripercorriamo senza rendercene  conto,  in  quanto  da  un lato fanno  parte del  nostro stile  di  vita e dall’altro sembri che il tempo  nelle  vallate  del  Triona si sia  fermato ai fasti di allora.
Come   si  può  affermare  il  contrario,  quando  ancora  oggi,  con  entusiasmo, si prova  ad assaggiare il pane fatto col  forno a legna della  propria abitazione, vedere ancora vecchi  mulini ad acqua che ci testimoniano la ricchezza idrica di queste vallate, anziani  contadini che, a dorso di un mulo provano a percorrere i vecchi  sentieri e le regie  trazzere  che  collegavano e collegano tutt’ora antiche masserie e nobili castelli.
Sentieri che  sembrano  essere  tracciati  da una Luce particolare, la stessa Luce che ha  accompagnato  e cambiato la  vita alle persone protagoniste dei racconti di questo volume, tra queste la mia amica Enza Cacioppo.
                  
        
                                                                                           Giuseppe Migliore



LE VALLATE DEL TRIONA

Noi amici più stretti di Enza Cacioppo, volevamo fare qualcosa in suo ricordo: così è nata l’idea di questo libro. Durante il lavoro di stesura, ho pensato di parlare di San Bernardo da Corleone e del suo tempo, perché il padre era di Chiusa Sclafani ed è per questo motivo, la prima parte del libro, I Racconti del fiume. Nella seconda parte, Storia, tradizione e devozione, invece, ho raccontato le sue valli, trattando di storia e devozione locale, anche con una poesia dedicata ai nonni. L’ultima parte è C’era una volta una principessa. Il messaggio che Enza indirizza a tutti  noi è di stare contenti perché dobbiamo rincontrarci e farci festa al di là del fiume. Noi quella luce l’abbiamo vista, dentro gli occhi di questa Principessa delle vallate del Triona. Tutte le volte che faremo del bene noi La imiteremo.
Alcuni disegni sono di Giuseppe Migliore, Nicola Fiorito, Saverio Marino e Antonio Giambrone, che facevano parte anch’essi della Compagnia di Enza. Considerato che abbiamo dato come titolo Le vallate del Triona, offriamo un’immagine di questo territorio.
Il monte Triona, si erge solitario e maestoso, a più di mille metri sul mare, in una meravigliosa cornice di colline, monti e vallate nell'interno della Sicilia. Una parte del rilievo è quasi inaccessibile, per i dirupi e le balze che si sovrappongono a picco, parte però è accessibile il che permette che la piccola pianura che forma la cima della vetta venga coltivata a cereali. La leggenda narra che su questo altopiano sorgeva la città di Triona, fondata dai troiani circa mille anni prima di Cristo. Un'altra parte del monte è dominata da una vasta foresta di pini, di abeti e di cipressi, che danno uno dei più belli e svariati paesaggi durante tutto l'anno. Qui tra i novecento ed i mille metri della montagna, nella parte erta e scoscesa sorge da più di tre secoli il santuario della Madonna del Balzo che si espone nella valle. Il Santuario, fiabescamente sospeso sulla sommità, si affaccia su un panorama vastissimo e superbo. Nella parte bassa che si estende sino alle valli del Belice, quasi all'estremo limite meridionale della provincia di Palermo, sorgono i paesi di Bisacquino, Chiusa Sclafani, Giuliana, Contessa Entellina e Campofiorito. La presenza di boschi e di vegetazione, la posizione altimetrica ideale, vi rendono l'aria salubre e piacevole. Girando per le vie del Centro Storico, di questi paesi, caratterizzato da strade strette e tortuose, vicoli e cortili, si possono ancora vedere i segni di generazioni passate che hanno vissuto in queste strade. Nonostante questo, però, i paesi sono completamente diversi. Basta solo ritornare indietro di circa un secolo, come facciamo con il capitolo “Vita nei paesi” per vedere alcune differenze rispetto al presente. A quel tempo il tenore di vita di gran parte della popolazione era basso, molte strade non erano facilmente percorribili, la popolazione continuava in gran parte a dedicarsi all'agricoltura, con mezzi ancora rudimentali ed all'artigianato. Nelle vie del Centro Storico allora abitava gran parte della popolazione: erano tutte case antiche, appartenute ad antenati, la cui storia si leggeva tra quelle mura. Tante cose si potrebbero dire sulla storia di ieri, è importante conoscere e valorizzare il modo di vivere, le abitudini, i divertimenti, le sofferenze ed il modo di esprimersi di chi ha vissuto prima di noi per fare un riscontro con la nostra realtà. Per questo troverete una parte scritta anche in dialetto.  S. D.


                                                                                                                  

                         PARTE I°
IL RACCONTO DEL FIUME

Nel tempo di cui stiamo per parlare, questa porzione di territorio, era sotto il dominio spagnolo, si trattava di un periodo triste, durante il quale i dominatori esercitavano continue violenze e si preoccupavano esclusivamente di prelevare denaro con tutti i sistemi.
Di conseguenza, il modo di vita degli abitanti era modesto, molte strade non erano facilmente percorribili, la gente si dedicava prevalentemente all’agricoltura.
Nel frattempo, l’epidemia della peste stava sterminando tutto il territorio, erano tempi di lunghe carestie e tumulti popolari, era il “600. 
Un uomo, Filippo Latino, popolare più avanti come San Bernardo da Corleone, attraversava questo mondo, lungo il suo cammino incontrava Santa Rosalia e la Madonna del Balzo.
Un fiume, dal nome Sosio, che ha origine vicino al monte delle Rose e poi scende giù nelle valli del monte Triona, molta acqua ha visto passare sotto i suoi ponti:
dal tempo in cui, Rosalia Sinibaldi, spostandosi a piedi, si accorgeva di un lupo piazzato sui suoi luoghi ed esibendo un crocifisso il pericolo si allontanava;
dal tempo in cui a frà Bernardo, attraversando lo stesso fiume, cadeva in acqua il suo crocifisso e quantunque era trascinato dalla corrente u crucifissu riacchianava a china;
od infine dal tempo in cui una bianca rosa fioriva accanto a un giglio.
    Quel fiume ci ha raccontato queste storie.





IO QUELLA LUCE L’HO VISTA

Corleone, come tutta la Sicilia, era sotto il dominio spagnolo, si trattava di un periodo triste, durante il quale i dominatori usavano continue violenze e si preoccupavano unicamente di togliere denaro in ogni modo. A queste sventure faceva contrasto lo sfarzo ed il lusso di pochi nobili. Per ripercussione il modo di vita dei più era povero, si tirava a campare con la terra, casali adibiti a granai, frantoi e stalle erano l’impronta che questa comunità lasciava. Le case dei più poveri constavano di un unico ambiente col forno in un angolo, la mangiatoia in un altro e per chi l’aveva un’alcova. La necessità più importante che questa gente aveva era quella di un mulino per macinare il grano. Vicino ad uno di questi mulini fatto uso con l’acqua, quel giorno del 6 febbraio del 1605, veniva al mondo nella fredda invernata, Filippo Latino. Nella casa di Santi dov’era nato, che si trovava accanto la via Conceria, nel quartiere di San Pietro, viveva con i genitori Francesca Sciascia e Leonardo, originario di Chiusa Sclafani e con parecchi fratelli. Nelle sere d’inverno, il mondo entrava silenziosamente in quella casa attraverso i cunti, affidati alle parole e ai gesti dei genitori e dei nonni, generalmente avevano come riferimento storie di santi.
Filippo trascorreva il mattino della vita a Corleone, nel luogo in cui il capo famiglia viveva e lavorava. Aveva  circa quindici anni quando perdeva il padre ed appresso, riuscito mastro calzolaio, comprava della mobilia per mettere su una bottega, nella Piazza Superiore, la piazza principale dell’abitato.
Frattanto, si faceva abile con la spada prima di Sicilia e tutelava gli oppressi dagli spagnoli e dagli abbienti. Per questo lo volevano uccidere. Quella volta, in un pomeriggio d’estate dell’anno 1626, durante un duello, feriva gravemente Vito Canino emissario del Beviaceto. Nell'interno di un convento di cappuccini si nascondeva.
La luce del giorno era già scomparsa. La notte cominciava ad avvolgere con le sue ombre la città, abbattuto dalla paura, Filippo si lasciava cadere su di un’alcova di tavola, metteva giù la testa sulle mani giunte e si addormentava. Con il suono della campana che annunziava l’origine della giornata, si alzava, usciva della cella del convento, piccola e stretta, e si metteva a guardare le sue contrade. L’estate pitturava Corleone di fiabeschi colori, la bianca luminosità dell’alba si posava sulle chiese, i palazzi, le case, le botteghe e poi scendeva sulle piazze, le strade, le viuzze ed i cortili, i luoghi in cui in quel momento i calzolai, i fabbri ferrai, i falegnami, i contadini, i pastori, principiavano a svegliare la borgata. Filippo immaginava come poteva essere bello compiere quello che aveva fatto qualunque mattina precedente, alzarsi nella sua casa, attraversare le quotidiane strade ed aprire la bottega, ma presagiva che per quanto era grande la tenerezza che egli sentiva verso sua madre ed i fratelli, per quanto era disposto a tutto per poterli aiutare, a questo punto nulla era più come prima. In nessun’altra occasione aveva sperimentato cammini di un giorno in tal misura malinconici come quelli che viveva ora nella clandestinità. Un giorno, un frate visionario così gli parlava: “Voi state per vedere una Luce, un prodigio, principio d’innumerevoli prodigi e di continue grazie, che originerà più letizia dell’apparizione di un Angelo”. Filippo guardava verso i monti.
Tempo dopo, mastro Filippo domandava perdono al Canino, con il quale più tardi diveniva amico e di seguito ad un transitorio periodo che occupava in bottega, dov’era portato a conoscenza delle vicende accadute a Palermo, sul monte delle Rose e di Santa Rosalia, portava a compimento la sua chiamata religiosa.
A 27 anni, il 13 dicembre 1631, vestiva nel noviziato di Caltanissetta la tonaca dei cappuccini con il nome di Bernardo da Corleone. I suoi compiti erano di aiutante cuciniere.
La sua missione, in tempi di lunghe carestie e tumulti popolari, esordiva in conventi sparsi in vari punti delle Vallate del Triona: Polizzi Generosa (1633-34), Corleone (1635 e 1650), Bivona (1636 e 1642), Sambuca di Sicilia (1638), Burgio (1639), Bisacquino (1640), Castronovo di Sicilia (1643), Castelvetrano e Agrigento (1644), Caltabellotta (1647), Chiusa Sclafani (1648-49), Ciminna (1651), Partinico (1652) e Palermo (dal 1653 al 1667).
Nelle vicende della vita subiva delle mortificazioni da parte di frati invidiosi e diceva: “perdoniamoli e preghiamo il Signore per loro, mi dispiace poveretti, perché hanno da morire fuori della religione”, però  rientrato in cucina ed internamente nel suo apostolato con dei tizzoni infuocati si bruciava le labbra perché capiva che la sua missione era quella di volere del bene a tutti.
 Altri frati invece gli si rivolgevano e domandavano sostegno, ed egli nel consolarli stringeva forte a se un crocifisso.  Quel giorno, durante il tempo in cui passava attraverso il fiume Verdura, che nella parte a monte si chiama Sosio, questo crocifisso gli cadeva in acqua, era in balia delle correnti, egli pensava di non poterlo recuperare, ma “u crucifissu riacchianava a china”.
Un giorno per una trama contro di lui, un priore lo riprendeva perché aveva scambiato una gallina da uova con una diversa e le aveva appena steso la gola per cucinarla ad un frate ammalato, ma l’animale da sotto la sua spalla, dove ancora si trovava, ritornava a vivere.
Spesso sostava davanti al Tabernacolo e con le sue lunghe braccia stringeva l’altare, come se in quel momento avvicinasse il mondo: un giorno Gesù scese dal Crocifisso e gli diede l’Eucaristia.
Conosciuto in ogni contrada, nella sua città i compaesani si trovavano determinati per accoglierlo festosamente. L’ultima domenica di settembre 1657, gli abitanti di Corleone, inclusa la madre, si erano riuniti in corteo e preceduti da una banda musicale si erano recati alle porte del paese, intanto che arrivava da Palermo. Il popolo indossava abiti di festa. I bambini portavano in mano mazzi di fiori rossi, altri dei frutti della terra. Appresso il benvenuto si portavano nella Piazza Superiore. In questo luogo ad un cenno del Responsabile della Città la musica smetteva e questi così gli parlava: “Reverendo Padre, Vi ringraziamo di tutte le buone azioni messe in atto durante questi anni vissuti con noi e con la gente delle comunità vicine, Voi piangete i nostri peccati; per questo noi imploriamo la Vostra benedizione sulle nostre case e le nostre famiglie. Il frate rispondeva impressionato e commosso: “Vi benedirò tutti dal Paradiso se, un giorno, Dio vorrà”. Si diffondeva a quell’epoca per le strade, comune a tutto un luogo, un urlo, che era detto più volte, “viva fra Beinnardò”. Era proprio allora che la musica riattaccava a suonare. Dopo tempo apprendeva la morte della madre. Il modo di vivere di frà Bernardo negli ultimi anni, era segnato dal fare penitenza (mangiare solo del pane, bere dell’acqua) ed anche dal fatto che nel convento di Palermo dove viveva, chiedeva sulle vicende successe nelle sue vallate. Così, veniva a sapere, degli avvenimenti accaduti a Bisacquino: di una Luce misteriosa che s’irradiava da un balzo del monte Triona. Prima di morire, diceva ai frati tutti dobbiamo salvarci, ma le sue ultime parole in questo mondo furono: amuninne, amuninne, Paradisu, Paradisu (andiamo, andiamo, Paradiso, Paradiso). Moriva a Palermo il 12 gennaio 1667.
A salutarlo per l’ultima volta in questa vita sconvolte si incamminavano migliaia di persone; i suoi compaesani, che avevano ricevuto la comunicazione, a piedi, con i muli, sopra dei carri si mettevano in strada.
 Il suo corpo riposa nella chiesa dei Cappuccini a Palermo, nell’altare del Crocifisso.








IL MONTE DELLE ROSE

Nel 1624, la peste, si scatenava a Trapani a causa di un vascello infetto venuto dalla Barberia, si diffondeva a Palermo e in tutta la Sicilia.
Un giorno di quell’anno, due muratori, Simone Tropiano e Francesco Bongiorno, attraversando il bosco della Quisquina nei pressi di Filaga, vicino Prizzi, attratti da una luce in una grotta, sul monte delle Rose, scoprivano all’entrata, in una roccia, le ultime volontà celesti di una persona, un’iscrizione in latino indicante che in quel luogo era vissuta una donna che si chiamava Rosalia Sinibaldi. “Ego Rosalia Sinibaldi Quisquine et rosarum domini filia amore dni mei Iesu Cristi ini hoc antro habitari decrevi”.
Nello stesso tempo a Palermo ad una certa Girolama La Gattuta che era malata di peste, le compariva in sogno questa ragazza Rosalia Sinibaldi, che mostrando dolcezza la liberava dal male con il segno della mano. La giovane, inoltre, le chiedeva di recarsi sul Monte Pellegrino a cercare la sua tomba dimenticata da secoli. La signorina La Gattuta parlava della visione ad un suo conoscente, insieme con una squadra d’operai si recavano sul monte Pellegrino e scoprivano la grotta con i resti del corpo della giovane. Salvaguardavano le spoglie nel luogo dato che a Palermo imperversava la peste. Il 15 luglio 1624 si portavano via le ossa dalla grotta allora scoperta per accompagnarli nell’abitato.
La notte del 10 febbraio del 1625, ulteriormente, un cacciatore Vincenzo Bonello, in fin di vita dichiarava, al sacerdote Don Pietro Lo Monaco, che mentre saliva il monte Pellegrino con lo scopo di togliersi la vita dopo che la moglie era morta per peste, era avvicinato da una giovane romita. Consolato, era guidato in una grotta dove era vissuta una donna che si chiamava Rosalia Sinibaldi. La ragazza era Rosalia, e lo incaricava di fare sapere al Cardinale di Palermo, Giannettino Doria, di portare in processione le sue spoglie per distruggere la peste. Il Cardinale delegava un gruppo d’esperti per esaminare l’attendibilità delle spoglie e dopo un anno acconsentiva la processione. Nel frattempo l’epidemia stava sterminando tutto il territorio. Così, in qualunque luogo le ossa passavano, una moltitudine di persone guarivano e si univano alla processione”.
La folla con la faccia a terra, presa da gran timore, in atto di profonda devozione pregava per la Santuzza.
Registrata in ciò che resta del passato la situazione dolorosa, poi la pietà per questa persona meritevole di essere venerata diveniva popolare. Le narrazioni tradizionali affermavano che il popolo la investiva di dignità regale e di splendore di gloria posando una corona di rose sul suo capo, tante spose donavano il loro nome per i figli dei figli alla romita del monte delle Rose. Numerose Chiese s’innalzavano in quell’epoca da intitolare a quest’originale Protettrice di cui una anche a Corleone, il luogo religioso nel quale a San Bernardo piaceva andare a pregare. Inoltre poi, nella prima metà del settecento, due sculture commemorative, che la raffiguravano, si collocavano sia all’interno sia all’esterno della chiesa Madre di Bisacquino allora in costruzione. In quell’occasione accanto a S. Rosalia (invocata contro l’epidemia della peste e del colera) era aggiunto sia all’interno che all’esterno S. Giovanni Battista (invocato contro i temporali). E la gente ripeteva: “San Giuvanni fu lu primu di li apustuli biati, so patri Zaccaria, so matri vicchiarella, vicchiarella di tanti anni, prima Diu e po San Giuvanni. San Giuvanni fu lu primu, scarsu nudo e pellegrino e pi essiri lu cchiù granni viva Diu e San Giuvanni. Deci mila voti ludamu a San Giuvanni, ludamu tutti l’uri San Giuvanni e lu prutitturi. Deci mila voti ludamu tutti l’uri ca è cuscino di lu Signuri. San Giuvanni Battista, San Giuvanni evangelista, San Giuvannuzzo vucca d’oru, scansatinni di lu lampu e di lu tronu. Appresso San Giuvanni, Santa Rusalia, scarsa, sula e pellegrina e pi essiri pi la via, viva Diu e Santa Rusalia. Deci mila voti, ludamu tutti l’uri, Santa Rusalia e lu Signuri, chi nni scanzano nna ogni era di la pesti e lu culera.”.E pi essiri pi la via Viva S. Giuvanni e Santa Rusalia.
Nel racconto tradizionale chi era Rosalia Sinibaldi. Veniva al mondo nel 1125 a Palermo, durante il regno dei Normanni guidati da Ruggiero II°. Figlia di Maria Guiscardi e Teodino, duca di Quisquina e delle Rose, di nobile famiglia discendente di Carlo Magno, viveva l’età giovanile prima nel palazzo della famiglia che sorgeva a Palermo nei pressi della chiesa dell’Olivella e poi sempre nel capoluogo siciliano nella corte della regina Margherita, moglie di Guglielmo I° di Sicilia. Per la sua bellezza incantata si presentavano al padre per chiederla in sposa alcuni Principi del tempo. Ma un Angelo nel frattempo gli suggeriva di lasciare il castello. Così si allontanava, “per amore del mio signore Gesù Cristo”, di casa a 14 anni d’età, portava unicamente un crocifisso e la bibbia, si fermava vicino Monreale e poi s’incamminava, attraversando una selva detta ora S. Maria del Bosco, verso il monte delle Rose, oltrepassando il fiume Sosio dov’era intimorita da un lupo. Giunta nel Monte delle Rose il nome si riuniva alla sua vita. Qui si nascondeva in una grotta per sopportare avanti un’esistenza costruita sulla semplicità e la preghiera. Una grotta, una fonte, delle piante Le permettevano di sostentarsi per molti anni. Secondo la leggenda nel momento in cui scorgeva dei lupi o degli altri animali pericolosi mostrava il crocifisso e questi fuggivano. Dopo che aveva vissuto per 12 anni in quel rifugio segreto era preavvisata da un Angelo che doveva abbandonare il monte delle Rose perché era stata scoperta, in questo modo, si riparava in una spelonca nei pressi del paese di Bivona, poi attraversava le sue valli poste frontalmente al monte Triona e si rifugiava in ultimo in un’altra grotta sul monte Pellegrino, confinante con la città di Palermo. Restava lassù quindici anni, tra il freddo e le paludi della caverna. “Resta con noi Signore, si fa sera”. Moriva il 4 settembre del 1160 a soli 35 anni d’età.  Da allora nessuno sapeva più la fine di questa ragazza. A poco a poco, con il passare dei secoli, la sua figura era dimenticata, e per un pezzo non si parlava più di lei.
Dopo i fatti che erano accaduti tra il 1624-25 le grotte, sul monte Pellegrino e sul Monte delle Rose, dove Santa Rosalia viveva, diventavano dei luoghi sacri. I popoli delle contrade del Triona da quella volta la sceglievano come santa Protettrice e la ricordano ogni anno il 15 luglio ed il 4 settembre. Il suo corpo riposa nella chiesa principale della città di Palermo. Nel luogo della grotta di Quisquina poi i Cappuccini vi realizzarono attiguo al Santuario un convento. Forse mai come in questa delicata creatura il nome convenne alla vita, infatti, la traduzione della dicitura in latino è questa:
Io Rosalia Sinibaldi, figlia delle rose del signore, per amore del mio signore Gesù Cristo ho deciso di abitare in questa grotta di Quisquina.




LA LUCE DEL TRIONA

Un giorno del 1660, un pastore di Bisacquino, di circa diciotto anni, Vincenzo Adorno, conosciuto perché conduceva una vita religiosa, mentre vegliava un gregge sul Monte Triona, non molto lontano dal luogo soprannominato piano dei Cervi, vide con gran meraviglia una luce travolgente irradiarsi da alcuni macigni nella parte elevata. Poi, passato l’attimo d’insicurezza, il pastore coraggiosamente si aggrappa alle sporgenze delle rocce, si trascina avanti, quasi rannicchiato, e svela nella grotta non profonda di un gran blocco di roccia una figura molto semplice della Madonna. L’Adorno affascinato dal calore intenso della sua religiosità ritornò sul luogo, pare più volte. Non pare che ne parlasse molto. Chi sa, suscitava avversione forse al suo sentimento religioso rivelare ad altri un segreto così celeste? Ho temeva di violarlo facendolo sapere all’incredulità dei tanti?
Nello stesso tempo un altro pastore bisacquinese Francesco Perrattori, che aveva più di sessant’anni, mentre portava al pascolo il gregge a poche miglia dal Triona, vide anche lui una sfera di luce sfavillare sulle balze scoscese del monte. L’anziano capraio restò così impressionato di quello che aveva visto, che non finiva, finché visse, di raccontarlo ai figli.
Anche un santo laico francescano del convento dei Minori Riformati di Sant’Anna, frate Angelo da Giuliana, vide in sogno il Triona illuminato da una luce misteriosa e una folla di fedeli distesi a terra in atto di profonda devozione. I due pastori ed il santo frate non diffusero fra il popolo la notizia delle loro vedute. Sicuramente ne avranno parlato con i loro parenti, ma non più di tanto. Si preoccupavano forse di non essere creduti? Pensarono, piuttosto di essere stati stimati dal Cielo? L’una e l’altra ragione probabilmente v’influirono. Ma Dio vuole che le Sue opere siano da tutti conosciuti, perché i popoli li possano svelare e celebrare.
E tale era pure la volontà della Virgo del Balzo, la quale intendeva, con quei prodigi, richiamare tutta la gente delle vallate del Triona verso il suo rifugio.
Un sabato di marzo del 1664 il Cappuccino P. Bonaventura da Termini durante una predica di Quaresima a Bisacquino, nel ricordare i Santi protettori del paese, all'improvviso elevò con tono di dolcezza il Monte Triona, dicendo tra le altre cose ”…….Ma a Quella……a Quella tutti cedono. Renda ognora felici i cittadini e la terra ricca di biade e di bestiame: la Madre di Dio l’Altissimo comanda su queste contrade……….. E più non disse. Nessuno capì allora quelle parole incompiute ed incomprensibili. Ma quando non molto dopo la Vergine del Balzo fece nuovi prodigi, molti si ricordarono della predizione.
O monte fortunoso che della Madre il viso gentile ed amoroso di sangue mostri intriso, da secoli risplendi, o rocca fortunata, e delle nostre genti sei meta desiata. Colomba tutta bella tu profumato fior, del pellegrino sei stella che a Te rivolge il cuor. L’afflitto tu consoli, la gioia rendi bella, speranza nei dolori, Tu sei la nostra stella…………..(D. Calogero Di Vincenti).

Era la primavera del 1664: due giovani contadini attraversando il Triona, scorsero nel cavo della rupe, scoperta prima dall’Adorno l’immagine di Maria che tiene stretta a se il bambino Gesù. Ammirati la guardano e si sentono mossi a rispettarla. Ma di lì a poco, con una leggerezza propria della gioventù, essi si danno appassionatamente al giuoco. Uno di loro, avendo perduto non so che miseria, accecato dalla rabbia, se la prende con l’innocente figura scolpita, prende una falce e la scaglia di punta sulla fronte della Madonna.
Ma il malvagio, sull’atto stesso, cade a terra colpito da un fulmine, mentre dalla fronte della Vergine ferita escono a getti delle vive gocce di sangue. Si figuri lo spavento del compagno. Confuso corse giù per la discesa pericolosa verso Bisacquino, verso la casa del deceduto. Ed a tutti quelli che incontrava, durante il percorso, raccontava l’accaduto.
Con gli occhi sgranati, pallido, affannato, balbettò parole senza senso, confuse il racconto della scoperta della figura con quello della morte improvvisa del giovane. I genitori stentarono dapprima a capire, poi da quell’insieme di frasi tagliate, tirarono, spaventoso, la chiarezza del fatto e alzarono alte grida. La notizia si sparse in pochi minuti: dolore e confusione commossero il paese intero.
Subito i genitori, seguiti da una folla di parenti e di cittadini, corrono sul luogo, “su Monti Triona, c’è fatta ‘na via, curremu divoti, ludamu a Maria”, e trovano il corpo morto del figlio.
Altri pianti, altre grida. Ma  l’affetto di madre anche questa volta, consigliò una di quelle preghiere che forzano il Cielo.
La madre raccogliendo tutte le forze della sua religiosità, abbraccia il figlio morto e voltandosi alla figura della Madonna, le domanda la grazia per il figlio.
O gra’ Rocca fortunata supra cui fu ritruvata la mirabili figura di la nostra gran Signura! O santissima Maria, matri pura e Matri Pia, nostra matri siti Vui, prutiggiti a tutti nui. Fida Spranza, o Amurusa, distinniti piatusa, la putenti vostra manu, ch’ogni mali fa luntanu. Riciviti, Matri amanti, chisti lodi e chisti canti; cu lu cori vi li damu, tutti a vui li cunsacramu. Canta, canta cu’ fistinu Maria du Vazu, Busacchinu! Busacchinu e furtunatu, Maria du Vazu l’ha aiutato; l’aiutato e l’aiutirà, Maria du Vazu lu sarvirà. Pi lu figghiu ch’aviti ‘nvrazza cunciditini la grazia……….(canto tradizionale)
Sono così espressivi i suoi sospiri, così forte e la sua speranza, che Maria non perde tempo a dare una mano.
In poco tempo il corpo si rianima e il giovane si mette in movimento tra le voci di festa dei genitori e del popolo.
La folla con la faccia a terra, presa da grande timore in atto di profonda devozione per la bedda matri, così pregò.
A Vui Sarvi Rigina, Matri di bon cunsigghiu purtastivu lu gigghiu, di rosi e ciuri. Lu gigghiu e lu Signuri chi n’terra s’incarnau  e poi santificau a San Giuvanni. Partiu pi li campagni a visitar lu tempiu ni detti un granni esempiu pi ogni via. E dudici anni avia e persiru a lu Signuri e mezzu a li dutturi lu ritruvaru. Di spini lu ‘ncrunaru di spini assai pungenti e iddu alligramenti purtau la cruci. Ghittau ‘na granni vuci vidennu a la so matri chiamau l’Eternu Patri e po spirau. Ncelu si nn’annachianau e ncelu quann’arriva evviva la matri viva di bon cunsigghiu (Canto Tradizionale).
D’allora in poi il monte Triona si chiamò:<<la Montagna della Madonna>>.
La Virgo del Balzo, coi suoi prodigi, aveva manifestato il desiderio d’essere onorata sul luogo della scoperta. Il popolo capì il volere dell’Onnipotente Dio e si votò con passione nobile. Subito le elemosine arrivarono; ognuno partecipò secondo ed oltre le sue possibilità. Mirabili furono soprattutto le donne che si levarono anche gli anelli matrimoniali. Contadini e pastori recarono grano, agnelli e capi di bestiame, imitando così i poveri pastori di Betlemme, che nella santa notte chiamati per primi alla culla di Gesù, vi recarono in dono i frutti della terra e i semplici prodotti della pastorizia.
Ch’è bedda sta Matri Ch’adura lu Figghiu! la rosa e lu gigghiu chi oduri chi fa!
In pochi mesi si raccolsero non meno di ventimila scudi, somma grandissima per quei tempi. I lavori cominciarono in poco tempo e furono eseguiti accuratamente sotto il comando dei bisacquinesi Pietro Scalora, cui poi si aggiunse l’architetto, Vincenzo Nicolosi.
Ma una disgrazia venne a disturbare, per poco, l’impulso con cui si appassionava il lavoro. Un manovale, a nome Giovanni Rosato, mentre si trovava sul ponte più alto, nell’atto di porgere il materiale, mise un piede sbagliato cadendo da un’altezza paurosa tra massi ineguali e sporgenti. Stracciato, macchiato di sangue, senza segno di vita, fu posto dai compagni spaventati in una cesta e posato con fede davanti all’Immagine della Madonna del Balzo che stringe a se il suo bambino.
Il prodigio fu quasi improvviso. Il giovane come riscuotendosi da un sonno profondo, si alzò senza alcuna rottura, sano e pieno di vita.
Vergine Santissima che un balzo sceglieste sul Monte Triona per manifestarvi a noi, vostri figli, con un prodigio, principio di innumerevoli prodigi e di continue grazie. Deh! Proseguite a largirci i vostri favori, a proteggerci dai divini flagelli e a mostrarvi, quale sempre siete stata, nostra speciale Patrona. A Voi Madre amorosissima, ricorriamo in tutti i nostri bisogni, particolarmente dell’anima, fiduciosi di ottenere per Vostra intercessione dal Celeste Bambino, che tenete sul Vostro braccio, il perdono dei nostri falli e la nostra eterna salvezza. Amen (Preghiera).
Il  Santuario fu terminato dopo che erano passati circa quindici anni dal rinvenimento della Virgo del Balzo e considerare che quanto fu creato in quel tempo con i balzi nella terra e la gigantesca altezza era solo un miracolo pensare di poterlo fare. Chi ha modo di vederlo è d'accordo nel dire che anche internamente è ben definito. L’architetto Vincenzo Nicolosi si occupò dopo, anche, della progettazione  per la ricostruzione della città di Palermo, devastata dal terremoto del 1693. Vincenzo Adorno si fece frate e visse da eremita la sua vita in questo Santuario. Il sacerdote padre Bonaventura da Termini morì il 19 luglio del 1691 a Palermo. Frate Angelo da Giuliana, dopo non molti anni dalla sua morte, la Chiesa, per quanto aveva fatto in vita, lo proclamò Venerabile.
Bisacquino celebra la festa  della Madonna del Balzo il 15 di agosto.
O tu che sul Triona splendi perenne stella, Madre possente e buona, Vergine casta e bella; tu sei di nostra gente, il fulgido tesor, tu il palpito più ardente, tu l’inestinto amor. O Rocca venturosa, da cui mostrasti il figlio, come una bianca rosa, fiorita accanto a un giglio! Ma giovanil furore, la falce in te vibrò e dalla fronte umore, di sangue zambillò. Fiero malor di schianto, percosse l’infelice e dal materno pianto, sonò l’alta pendice. Tremo pietoso il ciglio, sul viso tuo seren e ridonasti il figlio, vivo al materno sen. Madre dagli alti cieli, spiega il tuo vel di stelle; piovi sui tuoi fedeli, le grazie tue più belle. Con gli occhi benedetti sperdi l’insidia ostil, cresci nei nostri petti, ogni virtù gentil. O Vergine del Balzo, col popolo fedel, l’anima mia t’innalzo: tu la conduci al ciel. (Canto tradizionale - Mons. G. Petralia).



PARTE II°
Storia, Tradizione e devozione



S. MARIA DI GESU’

Parlare di fra Innocenzo da Chiusa significa parlare del convento di S. Anna. Il convento di S. Anna di Giuliana è uno dei luoghi religiosi più indicativi delle nostre contrade. Le rovine del monastero si trovano su un colle accerchiato da vecchie querce, pini ed abeti, lungo la valle, attraversata dal fiume malotempo, che da Giuliana porta a Chiusa Sclafani. La storia afferma che il cavalier Berardo da Alterino e Francesca sua moglie donarono, per grazia ricevuta, nel 1289 il feudo di S. Anna ai padri benedettini. Sin da questo tempo, forse anche prima, pare sia esistita, in detto feudo, una chiesa consacrata a S. Anna ed in seguito s’innalzò anche il convento. Nel corso dei secoli il monastero di Giuliana passò ai frati francescani, sia agli osservanti sia ai minori riformati. Vi si custodì, tra le altre cose, un quadro che ritraeva il venerabile frate Angelo da Giuliana con S. Francesco d’Assisi. Vi si trovano, ancora oggi, le reliquie di S. Anna. Nel convento vissero, tra gli altri, fra Benedetto il Moro (il primo canonizzato di colore) proclamato santo da papa Pio VII° nel 1807, fra Simone Napoli definito “il santo di S. Anna” e fra Innocenzo da Chiusa che nacque nel 1557. Nel 1580 entrò nell’ordine francescano e poi in quello dei frati minori riformati. Visse una vita umile dedicata ai poveri. Portò a piedi da Roma sulle spalle una pesante campana che fu collocata nella chiesa di S. Anna: che un giorno fece sentire al pontefice del tempo, toccandogli il piede con il suo. Dal papa Urbano VII° ottenne una copia del velo con cui la Veronica asciugò il volto di Cristo, che nel 1617 portò a Chiusa Sclafani. Il “velo della Veronica” è il tessuto che, secondo le tradizioni cristiane non riportate dai Vangeli, una donna dal nome Veronica diede a Gesù Cristo mentre saliva la via crucis per tergersi dal viso il sangue e il sudore; così vi restò impressa la sua immagine. Il velo di Veronica è una delle più pregiate reliquie della cristianità, considerata per secoli da milioni di cristiani come la vera immagine del viso di Cristo. Le leggende lo chiamano il Mandylion che guarì principi e cavalieri: “perché tale fu il volere di Nostro Signore”. Dal XII° secolo al 1608 fu conservato a Roma, nella basilica di San Pietro. Nel 1608 il papa ordinò la demolizione della cappella dove era conservata la reliquia, che fu data agli archivi vaticani.
Ci conduce perfino alle stelle, il quadro di Santa Maria di Gesù, per la scena bellissima rappresentata. A parere del racconto tradizionale, si narra che fra Innocenzo la portò da Roma in compagnia della campana di S. Anna, dopo avere passato attraverso il tratto di mare tra Scilla e Cariddi con il suo mantello. Poi, andando avanti a piedi, stanco del viaggio, preferì riprendere fiato e bere dell’acqua ad una fontana prossima a Bisacquino. In questo luogo, il frate capì che la Madonna voleva restare lì.
Fra Innocenzo morì il 15 dicembre 1631 a Roma. Il suo corpo riposa nella Chiesa Madre di Chiusa Sclafani.




LA FESTA DEL PARADISO

Quella mattina del 3 maggio di tanti anni fa, la borgata si svegliò di buon’ora in tutti i quartieri di Bisacquino e le persone erano affaccendati cu quartare e lancedde a fare dei “viaggi” dalle fontane. I sarti ed i calzolai, intanto, s’apprestavano a consegnare vistiti e scarpe, perché quel giorno la gente indossava gli abiti nuovi, quella fredda invernata, abbondante di neve, era passata. La bande musicale girava  pi  curtigghia e vanedde, e con  le sue marce portava in tutti una nota d’allegria. Nelle case della nobiltà principi e baroni erano in gran confusione, si organizzavano per andare a missa di mazziorno. Era festa, ed i bimbi cominciavano a scendere nelle strade, così, come abitudine tramandata dal tempo, quel giorno a tutti i parenti che incontravano dicevano “benedica parrino” e ricevevano dei doni in cambio, anche i poveri quel giorno ricevevano dei regali.
L’orologio suonò il dodicesimo tocco ed incominciò la messa. L’altare maggiore della Matrice era pieno di monaci e di “parrini”, mentre dal balcone “dunne c’era l’armonio” il coro intonava Ubi Caritas: dove è la carità e l’amore, ivi è Dio (Ubi caritas et amor Deus ibi est). Tutti ci unì in un solo cuore l’amore di Cristo. Esultiamoci e rallegriamoci in lui. Temiamo e amiamo il Dio vivo. E amiamoci fra noi con sincerità d’affetto. Dove è la carità e l’amore, ivi è Dio. Raccogliamoci dunque tutti in un sol cuore; Vigiliamo perché nessun pensiero ci divida. Cessino le maligne ingiurie e le contese. E in mezzo a noi viva Cristo Dio. Dove è la carità e l’amore, ivi è Dio. Che noi pure possiamo vedere coi beati, nella gloria, il tuo volto, Cristo Dio. Questo è il gaudio immenso e veramente ineffabile. Per tutti i secoli dei secoli – Specula per infinita saeculorum. Amen. Appresso, l’Arciprete salì sopra il pulpito e disse: “U tre di maio è festa per tutti, è festa granne, arrivanu tanti genti di paisi comunicanti. Picchissu sta festa l’amaaffare ancora cchiù megghiu e cchiù bella. Sta chiesa nno mmerno e troppu suggetta a allagamenti e cci nni vulissi una cchiù nova e cchiù granne. Si facemu a Matrice nova am’affare na Vara a stu Crucisissu ca di stu purtune unciavannescire, chiassà di sessanta omini mise nna tre file l’annu a purtare, e ava taliari u suli. Ite missa est.
La processione che si spiegò nel pomeriggio rappresentava la festa che i Santi fanno al Crocifisso che arriva in paradiso: fra una allegra “campaniata e n’atra”, una lunga sfilata di statue di Santi camminavano davanti al Crocifisso, di “valure e espressivo”. Guardateli, come sono stupende queste vecchie statue paesane, “parino veru, parlano” disse una volta una “persona studiata”, vedeteli alti quanto noi e vestiti con abiti antichi, “presentiamoli” con accanto il periodo in cui furono in vita: Gesù Crocifisso, S. Giuseppe, Madonna del Cuore, S. Marco evangelista, S. Giovanni Battista - 1° secolo; S. Lucia, S. Apollonia, S. Antonio Abate, S. Vito, S. Erasmo, S. Ciro,  S. Sebastiano - 3° secolo; S. Biagio - 4° secolo; S. Rosalia - 11° secolo; S. Gerlando, S. Isidoro - 12° secolo; S. Antonio da Padova; S. Francesco d’Assisi -, S. Chiara - 13° secolo; S. Vincenzo Ferreri 15° secolo; S. Francesco di Paola - 16° secolo; S. Elia e S. Eliseo profeti, S. Michele Arcangelo, ed altri santi nuovi S. Ispirito, S. Rita, S. Caterina d’Alessandria, S. Stanislao, S. Luigi, S. Crispino, S. Teresa d’Avila, S. Teresa del bambino Gesù, S. Eligio e S. Pasquale. Dopo tempo, nella seconda metà del ‘700, fu portata a termine la costruzione di una  Matrice molto più grande, la vecchia era stata abbattuta nel 1703, nella nuova chiesa Madre il Crocifisso ebbe una grande “VARA”.
Ecco, per effetto di questo, momento per momento l’esposizione della processione, come avvenne poi. Finalmente dopo lunghi preparativi, i Santi sono ben sistemati sui piedistalli, vengono sotto questi inseriti delle grosse travi e a spalla le statue vengono portate, dalle varie chiese, sparse in tutto il Paese, in piazza accompagnate dalla banda musicale. Quando tutti sono arrivati comincia una singolare “cerimonia". Ad uno ad uno i Santi entrano nella Matrice a fare l’inchino al Crocifisso e man mano si dispongono in ordine già pronti per la sfilata. Apre la fila San Michele Arcangelo, seguono S. Rosalia e S. Giovanni Battista, ed ecco tutti gli altri, in tutto più di trenta, secondo un ordine che si rispetta da secoli. Per ultimi sfilano San Giuseppe e la Madonna del Cuore immediatamente vicini al Crocifisso. La processione procede lentamente perché la Vara pesa molto ed è necessario prestare molta attenzione, più di sessanta persone sono poste sotto di essa. Come si sa ogni Santo ha i suoi devoti: gli studenti portano S. Luigi, gli agricoltori S. Elia e S. Eliseo, due statue poste sullo stesso piedistallo l’uno invocato per l’acqua e l’altro per il raccolto abbondante delle olive (all’annu scorsu chi unnisceru picchi diciano ca erano troppu pesanti, un chiuviu e mancu s’arricugghiero alive), S. Crispino e portato a spalla dai calzolai e cosi di seguito. Nonostante la fatica e l’affanno ogni tanto da sotto le statue si levano delle alte voci che in coro esclamano “e gridamo tutti viva”,  viva S. Rosalia, viva S. Lucia e così tutti gli altri. Dopo aver percorso le principali vie del paese la processione confluisce nuovamente in piazza: le statue si dispongono ancora in bell’ordine a circolo attorno al Crocifisso, che si trova nel sacrato della chiesa Madre. Ancora una volta ogni Santo rende il suo omaggio a Cristo con un bell’inchino e a poco a poco ognuno si ritira nella propria chiesa. La piazza è piena di gente, che poi entra in Matrice. Con del cotone viene deterso il sudore, che la tradizione e la devozione popolare dice si trovi sul corpo del Cristo, assieme ai fiori esso viene distribuito. Il popolo in segnò di ringraziamento intonò il Te Deum: Ti lodiamo, o Dio; o Signore ti confessiamo (Te Deum laudamus: Te Dominum confitemur). Te, eterno Padre, la terra tutta venera. A te gli angeli tutti, a te i Cieli e la Potestà; A te i Cherubini e i Serafini, con voce incessante cantano: Santo, Santo, Santo è il Signore Dio degli eserciti. I Cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Il glorioso coro degli apostoli. Dei profeti la lodevole schiera, Come pure il candido esercito dei martiri ti loda. Per l’orbe terrestre la santa Chiesa confessa. Te padre di immensa maestà. E il venerando tuo vero e unico Figlio, E il Santo Spirito Consolatore. Tu sei il re della gloria, Cristo; Tu sei il Figlio sempiterno del Padre. Tu umanandoti per liberare l’uomo, non sdegnasti il seno di una vergine; Tu vincendo la morte, hai aperto ai credenti i regni del Cielo. Tu siedi alla destra di Dio nella gloria del Padre. Noi crediamo che tornerai come Giudice. Perciò ti supplichiamo di soccorrere i tuoi servi che redimesti col tuo sangue prezioso. Fa che insieme ai tuoi Santi siano annoverati nell’eterna gloria. Salva il popolo tuo, Signore, e benedici la tua eredità; Reggila, ed esaltala fino all’eternità. Degnati, Signore, in questo giorno di custodirci senza peccato. Pietà di noi, Signore, pietà di noi. Venga, Signore, la tua misericordia su noi poiché abbiamo sperato in te. In te signore sperai; fa che io non resti confuso in eterno (In te, Domine, speravi * non confundar in aeternu).

A Chiusa Sclafani la festa del Paradiso si svolge tre giorni dopo il giorno di Pentecoste, perché fu proprio in quel giorno che la gente raccolta nella chiesa di S. Caterina vide il sollevarsi ed il calarsi della corona del SS. Crocifisso. La gente andò in processione verso la Chiesa Madre e durante la messa si udirono suonare le campane di S. Caterina.

Alla vigilia della sua morte, Cristo parlò con gli apostoli ed annunciò loro che, dopo il suo ritorno al Padre, sarebbe venuto lo Spirito Santo. Dopo che il Signore ebbe dato queste promesse, nella stessa notte fu arrestato. Nei quaranta giorni dopo Pasqua si fece vedere più volte agli apostoli, parlò loro del regno di Dio e disse che mandava lo Spirito Santo che avrebbe vissuto nella terra, fino alla fine del mondo. Dieci giorni dopo la sua ascensione al Cielo, gli apostoli riuniti in Gerusalemme, con Maria sua madre ed altre donne, intuirono che lo Spirito Santo era con loro. Era il giorno di Pentecoste.




LA FONTANA DEI DESIDERI

Sintiti, sintiti, stu cuntu, ed aviti puntu, picchi cu fa festa a S. Giusippuzzu, unni la sbaglia, picchi avi na torcia addumata nParadisù.
Un cristiano di busacchinu, taliò, na vota nell’ebboca 1643, pi na dicina di chilometre, un celo ca era quasi blu. Iddu un si ricordava di aviri mai vistu na cosa simule  ndò misi di marzu. U paisi di lontanu un paria  granne, cu strate stritte e camurriuse, vanedde, curtigghia, muntate e pinnine. S’appresentava  cu na chiazza e un casteddo di l’ebboca di li normanne, di cui arristava sulu la parte mezzana e lu bagghio, chi erano sarvati bone. C’è na funtana ddà nfunnu ci spiegava a tempi n’amico sò. Specificava un puntu nna l’atro latu da chiazza, luntano. A chiamanu la fontana del castello. Abbasta ca ti furrie,  chiude l’ocche, ci tiri i sorde, e esprimi lu to desiderio. Avia appena u tempu d’intravidila, tra na Chiesa e na poco di case antiche, quanno ienno appresso a  l’indicazione ditti di la genti chi passava, pigghiava na vanidduzza, unni un c’era scrusciu e chi era quasi o scuru. E accusse, arrivava nna na chiazza, stritta e pavimentata. Dunne a vanedda finia e a chiazza accuminciava c’erano cristiane assa, ma propria assa. Na chiesa cu  na para di scaluna era ora davanti di iddu, pusato ncapo u primu scalune c’era S. Giuseppuzzu, propriu davanti u purtuni. Iddu ca nna ddu paisi ci avia iuto picca vote vidennu tutti ddi stranie si sintia cunfunnutu. Ma cca ntravidia l’atre amici sò. Cu iddi c’erano na poco di mascule e fimmine chi unnavia vistu mai. I so nnome erano la sula cosa chi avia di cunuscenza, picchi anche nna lu dialettu parlavano n’anticchia diverse, pi spressione l’ogghiu u chiamavanu oglio. Un facia friddo, na poco di porte erano aperte e i case tutte addumate, tranne una, ca ci diciano, ca cu cci stava avia picca sorde. Appresso, a banna comunale cittadina fici na musicata allegra e mentri sparavano i botti S. Giuseppuzzu accuminciava a movise. Avia cuminciato a pricissione. I finistruna chi ddavano nna strata dunne passava u Santo, cunsate cu cutre, cuttunine e na poco di lumìra, erano chini chini di cristiane, e sti cristiane ndoppo si iungiano  a pricissione. A genti pi coprire i mumenti lassate vacanti dalla banda musicale cittadina dicia u Rusario “Evviva Giuseppi castissimu sposu e patri amuruso chiu d’iddu nun c’è - In tutto e cuncisu di santo e di nomu lu so granni nomu Patriarca lu fa”. Ddoppu, quasi a la finitura, tutta dda genti pigghià na strata longa ca paria un finire mai, e iddu cu li so amici ca erano stanchi, picchi aviano vinuto a pedi di Busacchinu, pi accurzari tagghiaro di dda vanidduzza dunne aviano passatu prima. Poi,  l’arciprete faciu u discorso e disse, di chiddu ca si ricorda, ca la carestia finalmente era finita, e che la pruvvidenzia unsavia scurdatu ddu paisi. Avia statu unn’ebboca di pititto pi tutti. Fù quannu finio a binidizione in latino,  ca tintau di truvari la strata pi nesciri da Chiesa, ma cca truvau na fudda ca la via priciduto. Nsumma arriniscio a nesciri da chiesa. Allura, visti ca la casa chi prima era o scuro era ora addumata cu na poco di cannilera e c’era un granni artaru di San Giuseppe, cu lu vastune e la varva fatti di pane speciale. Cu sape, forse, dda sira nasciano i Santi addummanati. Poi, si misi a caminare cu l’amici sò, fino a quasi dunne finia u paisi, pi firriare l’artara. Cci offriano na granne varietà di viscotta sicchi, diciano che avevano forme barocche, ci dettiru puru cucciddate, pignulatata, sfince e rosolio e un ci cridissivu, puru u cafè. Senza sapillo avia fattu u Santo. Cci Addumannà quali era la ragione di tutto questo. Ci cuntaru ca ddu ghiornu, cu fa festa a S. Giuseppe, unni la sbaglia, picchi avi na torcia addumata nParadisù (ricordati ca nna la vita, nni L’Angeli di Dio la to chiamata, e lassau dittu ognuno cu mita, dumani attrova na torcia addumata). Appoi, pigghià pa chiazza granne e ddaa sa sittà n’cima o muretto della fontana dei desideri e la taliò, dei leoni in due cerchi proteggevano degli angeli che portavano una luce in cielo, e quanno si nni stava ienno, girau i spadde  a biviratura, pigghiao tri sordi, chiudiu l’ocche, pinsau e appoi i  lanciao. Era il 19 marzo di tanti anni fa. Trattasi di cuntu ambientato a Chiusa.




LA MADONNA DELLE LACRIME

Era il 7 novembre 1835, quando nei pressi della Chiesa Madre di Chiusa Sclafani, da un quadretto tratteggiante Maria di Nazareth con S. Giuseppe e il bambino Gesù, sgorgavano delle vive lacrime umane. Il dipinto su cristallo si trovava nella casa di donna Felicia Lombardi, la quale teneva, notte e giorno, una lampada ad olio accesa davanti a questo quadro della Sacra Famiglia. Quel giorno dopo di avere detto il rosario con donna Felicia ed una sua nipote, una governante mentre stava rinnovando l’olio della lampada, notava che dagli occhi della Madonna venivano giù lacrime. Chiamava subito la signora Felicia, la quale vedeva anche lei piangere la Madonna, ma dubitando degli occhi suoi, toccava con il dito il punto dove erano le lacrime e lo ritraeva umido. La notizia si spargeva in pochi minuti, dolore e confusione impressionavano il paese intero. L’evento che si protraeva, nel giro di pochi giorni, con tempi più o meno estesi, per cinque volte, sia dentro come fuori delle mura domestiche, richiamava subito un gran numero di persone, che riuscivano a guardare con i loro occhi, toccare con le proprie mani, raccogliere e addirittura assaggiare la salinità di quelle lacrime. Assistevano alla lacrimazione tra gli altri il sacerdote don Domenico Gendusa e l’indomani 8 novembre anche l’arciprete Don Francesco Di Bella. Il 13 novembre, verso il tramonto, la Madonna fu vista piangere ancora. Infine il 16 novembre, dopo la benedizione eucaristica, il Cappellano con altri preti e fedeli scoprirono che si riproponeva il miracolo. Molti erano in quei giorni quelli che, uscendo dalla casa di donna Felicia, piangevano e si riavvicinavano alla Luce di Dio, molti guarivano da diverse malattie. La vicenda inteneriva le contrade del Triona e una moltitudine di persone  accorrevano ai piedi della Madre piangente per aprire il loro cuore alla speranza. La Madonna a Caterina Labourè, come a Lourdesa Bernadette, come a Fatima ed a Medjugori ha parlato, qui come su quel Balzo ha personificato la sofferenza. Ora la Madonna delle Lacrime ha un suo Santuario.




PIOVEVA E STAVA PER NEVICARE

Quel giorno del 19 giugno dell’anno del tempo andato 1904, a Bisacquino, in una casa che si trova in un cortile a lato la via Ecce Homo, nel quartiere di San Francesco d’Assisi, veniva al mondo Filippo Ferlisi. Nella casa dov’era nato, viveva con i genitori e con parecchi fratelli. Trascorreva il mattino della vita a Bisacquino, nel luogo in cui il padre viveva e lavorava. Riuscito pastore, un giorno del 1931, mentre portava al pascolo il gregge, una disgrazia veniva a disturbare il suo lavoro. Si trovava seduto su di alcuni blocchi di roccia, quando colpito da una zampata di un cavallo infierito, restava privo della vista. La luce del giorno era già scomparsa. La notte cominciava ad avvolgere con le sue ombre la città, abbattuto dalla paura, Filippo si lasciava cadere su di un’alcova, metteva giù la testa sulle mani e si addormentava. Dopo veniva portato con fede davanti all’Immagine della Madonna del Balzo che stringe a se il suo bambino. Il prodigio era quasi improvviso. Filippo come svegliandosi da un sonno profondo ritornava a vedere la luce. Il giovane pastore, però, restava così impressionato di quello che era avvenuto, che sceglieva di farsi frate. A 27 anni, sul finire del 1931 si confidava con il Decano Giovanni Bacile, (sacerdote che visse povero e morì povero e che già in vita era per i bisacquinesi un Santo, del quale è in corso un processo di beatificazione), così vestiva nel Santuario della Madonna del Balzo il saio di San Francesco. Da allora era per tutti frate Antonio (frantoni). Qui si eclissava per portare avanti un’esistenza costruita sulla semplicità e la preghiera. Dava principio così in silenzio alla sua vita d’umile eremita. Era soprattutto un uomo buono, che aveva un particolare rapporto con gli umili come lui, che aiutava i poveri, i carcerati e quanti picchiavano alla porta del convento. Come S. Francesco amava gli animali e parlava con loro. Conosciuto in ogni contrada, i suoi compaesani si trovavano determinati per ricordare i suoi anni vissuti al Santuario. Gli abitanti di Bisacquino, si erano riuniti in corteo, e preceduti da una banda musicale, si erano portati al Santuario, percorrendo a piedi un caratteristico sentiero di montagna. All’ingresso del sentiero attraversavano i pileri, e poi sostavano nelle quattordici croci in muratura che delimitano la strada tortuosa. Poi, davanti alla Sacra Immagine, il Decano don Lino Di Vincenti così parlava: Reverendo Padre, un giorno del 1660, un pastore di Bisacquino, di circa diciotto anni, Vincenzo Adorno, conosciuto perché conduceva una vita religiosa, mentre vegliava un gregge sul Monte Triona, non molto lontano dal luogo soprannominato piano dei Cervi, vedeva con gran meraviglia una luce travolgente irradiarsi da alcuni macigni nella parte elevata. L’Adorno affascinato dal calore intenso della sua religiosità decideva poi di trascorrere il resto della sua vita da solo in questo santo luogo. Dopo tanti anni, Lei, seguendo quel sentiero tracciato tanti secoli fa, con la sua esperienza di persona umile ha reso ancora più bella questa storia. Per questo noi invochiamo le Vostre preghiere sulle famiglie bisacquinesi. Frantoni con le lacrime agli occhi rispondeva: un giorno, quando cade la pioggia e sta per avvicinarsi la neve chiederò alla Madonna del Balzo un sorriso ed una preghiera per queste vallate; era allora che la musica riattacava a suonare. Se ne andò, il 16 novembre del 1992, nella fredda invernata.  
                

  
LA VECCHIETTA CON LA MANTELLINA

Addio vecchietta con la mantellina
semplice e buona nel tuo cuore retta
tu eri contenta e poverina
senza conoscere che la tua casetta. 
Là vivevi tra i figli ed i nipoti
lavorando con le mani grinzose
la tua vita non conosceva vuoti
niente ozio ma ore laboriose. 
Non conoscevi le grandi città 
ignoravi lo scrivere ed il parlare
non sapevi cos’era civiltà
ma sapevi tante cose e cosa fare.
Avevi tu allevato nella stanza
che era per te una reggia d’amore
al fianco del tuo uomo con costanza
almeno sette figli con gran cuore.
Avevi lavorato ora per ora
nei campi coordinando l’anno tuo
alzandoti al mattino sull’aurora
andando a letto appena fatto buio. 
Badavi alle galline alla capretta
all’asino ed al roseo maialetto, 
tu tessevi filavi ed eri esperta 
ai tuoi lavori all’uncinetto. 
Non eri stata a scuola ma eri grande maestra
di buon senso ed onesta 
che dei figli e dei nipoti allegre bande
apprendevano al tuo esempio di bontà. 
Non conoscevi molto il saponetto
ma era bianca assai la tua coscienza
con la Madonna in semplice dialetto
tu parlavi con fede e confidenza. 
Uscivi solo per la prima messa
inverno estate con la mantellina
ignoravi ogni lusso a te promessa
era solo fatica ogni mattina.
Il pane caldo sapevi sfornare
per donarlo quel cibo prezioso
alle molte bocche da sfamare
per le quali non avevi riposo. 
La pasta di pura farina
sapevano ancor fare le tue mani
che seppure eri tanto vecchina
figli e nuore avevi d’aiutare. 
La coperta per la nipotina
che andava sposa al figlio del compare
era compito tuo cara nonnina
per la gioia di vederla maritare.
Eri lieta nella povertà
nel lavoro nella convivenza
perché avevi la tua semplicità
e la serenità di tua coscienza.
Non avevi diritto da rivedicare
problemi da risolvere gravosi
a te bastava vivere e narrare
i tuoi racconti ai bimbi numerosi. 
Ti bastava per la grande festa
inaugurar la nuova mantellina
e passeggiare con gioia manifesta
felice e lieta come una bambina. 
Addio vecchietta quando seppellita
dal progresso e dalla nuova civiltà
sei solo un bel ricordo di una vita
spensierata di una passata età. 
I nostri figli non ti conosceranno
ma non potremo giammai scordare
la tua figura e la vita che hanno scolpito
son cose da ricordare. 

Giuseppe Lombino



Parte III°
C'era una volta una Principessa






C’ERA UNA VOLTA, UNA PRINCIPESSA

C’era una volta una Principessa, era inverno e la neve cadeva sui prati, mentre il sole si nascondeva dietro le montagne………..
Cominciano, in ogni tempo, con questo stile le fiabe e così ci piace iniziare questo racconto su Enza Cacioppo, per parlarne come se lei si trovasse con noi.
 Le abbiamo attribuito questo titolo di principessa, perché Enza era ed è una principessa, la sua immagine splendida sempre aperta al sorriso, la sua intelligenza ed il suo portamento umile testimoniano questo.
La nostra era una bella Compagnia di amici, passavamo giorni piacevoli lungo il Viale Ungheria di Chiusa Sclafani, a seguire  le tante storie e leggende su questi minuti paesi ai pendii dei monti. In quella scalinata noi sognavamo il futuro, ora a pensarci, senza capirlo, erano quelli i migliori anni della nostra vita. Poi, la Compagnia era solo un ricordo, ognuno se n’era andato per la sua strada, ma noi ogni volta che ci vedevamo, facevamo un riassunto dei tanti racconti di un tempo. Successivamente, su quel muretto, lungo la valle dove ora riposi, realizzavamo un’altra compagnia. In questi tre anni, la scalinata è fatta diversa, invece il muretto non esiste più. Ma noi ogni volta che passiamo da lì, ti lasciamo un sorriso ed una preghiera. Solo Dio può trasformare le lacrime di dolore in lacrime di gioia, ma noi conserviamo con entusiasmo, le passeggiate per le fiere, le feste di paese con le processioni, le scarpe da tennis della Nike, l’interesse per le canzoni di Rtl, la canzone di Bocelli “Con te partirò”, la festa per il tuo 18° compleanno in contrada Quaranta, con le buste azzurre d’invito ed all’interno un’orchestrina che festosamente si esibiva. Ma io tra i tanti ricordi belli ho scelto questo: quando la comitiva di Bisacquino ha conosciuto la compagnia di Chiusa, per la festa di San Giuseppe, là dove la strada finiva e la piazza incominciava; girando poi insieme a visitare gli altari. Per noi, la tua Luce brilla più del sole, più della luna e più delle stelle. Veglia, principessa, veglia sul nostro cammino.
Enza Cacioppo viveva con i genitori Lia Schifani e Giuseppe, il fratello Salvatore e i nonni a Chiusa Sclafani, vicino il viale di S. Caterina. Nacque il 3 giugno 1978 nel paese di Palazzo Adriano, nel cuore dei Monti Sicani, che si estendono, tra l’altro, dalla Valle del Sosio a Santo Stefano di Quisquina. Per intenderci nei luoghi dove visse Rosalia Sinibaldi. In questo spicchio di contrade quasi tutto è rimasto così com’era allora. Vecchie querce, pini, abeti, rendono questi luoghi magici, una favola d'altri tempi racconta che vi abitano, gli gnomi, le fate, i canguri e gli scoiattoli. Andando fra sentieri di montagna, attraversando il fiume Sosio, si arriva nelle vallate del Triona. In una di queste vallate, fiancheggiata, da un piccolo fiume, Enza Cacioppo, trascorse, alcuni dei momenti più belli della sua breve vita. Il paesaggio della valle, attrae per il suo castello, per la visione delle montagne dalle cime irregolari, per la presenza di qualche mulino secolare, solo da ieri abbandonato all’acqua e per la sopravvivenza nelle vicinanze del convento di S. Anna; ma il vento soffio forte sulle rose. Così, a seguito di un incidente stradale in questi luoghi, una persona buona che sorrideva timidamente a Chiusa, lasciava questa vita, sul far della sera del 25 giugno 1999 nel paese di San Bernardo.
Più di tremila persone l’accompagnarono per il suo viaggio più lungo. Enza uscì, dalla chiesa di S. Caterina a Chiusa Sclafani, dove insegnava il catechismo ai bambini, tra le rose, lungo il viale salutò i luoghi, in cui aveva trascorso la sua infanzia, poi vide i passi, dove prendeva la corriera per frequentare le scuole superiori. Davanti la scalinata di pietra rivolse lo sguardo verso la Chiesa Madre, la chiesa della Prima Comunione e la foto con la Madonna delle Lacrime.


C’era una volta una Principessa, che un giorno uscì dal suo castello e scese lungo il fiume, qui  lo attraversò e vide un cielo celeste illuminato dai mille colori dell’arcobaleno. Allora, cercò con gli occhi l’alba nel suo paese. L’estate pitturava Chiusa Sclafani di fiabeschi colori, la bianca luminosità dell’alba si posava sulle chiese, i palazzi, le case, le botteghe e poi scendeva sulle piazze, le strade, le viuzze ed i cortili, i luoghi in cui in quel momento i calzolai, i fabbri ferrai, i falegnami, i contadini, i pastori, principiavano a svegliare la borgata. Enza immaginava, quello che aveva fatto qualunque mattina precedente, alzarsi nella sua casa, attraversare le quotidiane strade e sorridere a Chiusa; ma presagiva, per quanto era grande la tenerezza che Lei sentiva verso tutte le persone che le volevano bene, che per il momento non era come prima. Nel frattempo, i protagonisti di questo libro si erano riuniti in corteo e seguiti da una banda musicale, si erano recati alle porte del Paradiso, intanto che giungeva la Principessa delle loro valli. Era allora che la musica riattaccava a suonare.


LE MIE VALLATE 

Da quel lontano 1660, dalla visione di quella Luce tanto tempo è passato, tanto cose sono cambiate; ma in queste quiete valli, nei piccoli paesi abbarbicati ai pendii dei monti, sulle dolci colline che sembra debbano accogliere soltanto la serena opera dell'uomo, la Madonna del Balzo, come disse un sabato di marzo del 1664, padre Bonaventura da Termini comanda su queste contrade. Nessuno capì allora quelle parole incompiute ed incomprensibili, quando la Virgo del Balzo fece nuovi miracoli, parecchi capirono, che la loro vita qui era importante, perché la gente che incontravano tra questi monti, quella Luce cercava di vederla dentro i loro occhi.
Un giorno anche noi scendemmo lungo quel fiume, andavano alla deriva due pagine di un libro che Enza raccolse.
In una si leggevano i versi di San Francesco d’Assisi: Laudato sii Signore, per frate Sole, il Cielo e le stelle,….. la terra e tutte le tue creature.
Nell’altra le parole di Padre Pio da Pietralcina: Sono tutto di ogn’uno, ogn’uno può dire Padre Pio è mio.
Poi, i protagonisti di queste vallate, che sembrano essere percorse da una Luce particolare, ci porsero i saluti, si dissetarono con l’acqua del fiume ed andarono oltre verso un sentiero di montagna, una Principessa che faceva parte della Compagnia, saluntandoci disse a noi:
Io quella Luce l’ho vista, dentro gli occhi dei miei familiari e delle persone che mi vogliono bene, Io un libro su di Voi l’avrei scritto.
Nevicava e i fiocchi bianchi cadevano dal Cielo, il vento invece non soffiava più, un giorno sarebbe ritornato il sole da dietro le montagne.








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